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Usi, Superstizioni e Devozione

Nel secolo scorso sino alla celebrazione del Concilio Ecumenico Secondo, “il Gloria”, l’Annuncio della Risurrezione
di N.S.G. , veniva suonato con un giorno di anticipo, Sabato Santo anziché Domenica di Pasqua.

E mattina di sabato venivano benedetti l’acqua e il fuoco. La benedizione dell’acqua avveniva nella Chiesa Matrice. In fondo alla navata di detta chiesa veniva posta una grande caldaia piena di acqua. Intorno alla caldaia facevano ressa  sia ragazzi, sia ragazze. Tutti erano muniti di contenitori di varia foggia: bicchieri di alluminio e di vetro, pentolini, cuccumelle, boccali e piccole brocche di terracotta. L’arciprete del tempo, Don Ciccio Palaia, a un certo punto della funzione religiosa si portava in fondo alla navata e leggendo le rituali preghiere faceva scendere nella caldaia un grosso e lungo cero.

Terminate le preghiere il cero veniva tolto dall’acqua, segnale che la benedizione era avvenuta. Allora di botto, un allungare di braccia per affondare nell’acqua i vari contenitori.

L’urto era normale che avvenisse e ne riportavano la peggio quelli di consistenza fragile. La benedizione del fuoco avveniva sul sagrato antistante le due chiese, la Matrice e il Rosario.

Il sagrestano, ricordiamo Michele Chiera, accendeva un bel fuoco e intorno ad esso, per ovvi motivi, non si faceva ressa, nè ci si accalcava così come alla benedizione dell’acqua.

Ma, non erano pochi quelli che si avvicinavano e si adoperavano perché, di quel Sacro Fuoco,  potessero prenderne…. un pizzico.

A casa quel pizzico di brace veniva ravvivato con l’aggiunta di qualche granello d’incenso. E la padrona di casa, improvvisatasi ministra di culto, come se avesse un Turibolo benedicente si portava in tutti gli ambienti della sua abitazione. Non mancava di recitare Ave Maria e Pater Noster intercalandoli con implorazione che da casa sua fossero tenuti lontano malocchio, maledicenze e invidia!

Terminata la benedizione, sempre, la padrona di casa aveva cura di buttare il tutto, ancora fumante, al più vicino incrocio di strade.
Arrivati  i festosi rintocchi delle campane di tutte le chiese, il genitore sollevava in alto il proprio figlio in segno augurale:

-randa!, randa, mu ti viju, figghiumma!,

(che io ti possa vedere grande grande figlio/a mio/a!).

Ed, ancora, al suono della campane con un bastone si batteva sul pavimento e sulle suppellettili, lanciando una intimazione:

-surici de la casa mia jativinda!

(Topi della mia casa andatevene)

 

Mattina di Sabato era praticata una usanza, “la gara a prendere la testa”  che era indicativa delle tristi condizioni dell’epoca.

Sin dalle prime ore del mattino all’esterno delle macellerie faceva bella mostra di sè un capo di bestiame ovino ben legato e disteso su uno scannatoio, un’apparecchiatura di legno sulla quale, di solito, venivano macellati gli animali di taglia minuta.

Con l’approssimarsi dell’ora del “Gloria” dinnanzi alle macellerie andavano formandosi capannelli di curiosi e di interessati alla singolare gara.
Fattasi l’ora del “Gloria” il macellaio al primo rintocco sferrava con la mannaia un fendente deciso e bene assestato, decapitava la bestia e  senza alcun ritegno ed accorgimento lanciava contro gli astanti quella testa  grondante di sangue. Ne nasceva un gareggiare così animato che sembrava una zuffa, ma alla fine uno riusciva ad entrarne in possesso e alzandola in alto come un trofeo, lesto spariva. Gli altri delusi, scornati, rammaricati, lordi di sangue rimanevano sul posto a fare inutili commenti.

 

Sabato Santo chiudeva il periodo di penitenza, di astinenza e digiuno che aveva avuto inizio Mercoledì delle Ceneri.

 

 

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(strettamente personale, ma …. Non tanto!)

I risultati degli esami di riparazione per il conseguimento della Licenza Ginnasiale furono pubblicati nel pomeriggio.

Era la prima volta che frequentavo una Scuola Pubblica. Da quell’anno scolastico, 1947/1948, iniziai a frequentare regolari corsi di studio. Sino allora mi ero preparato da privatista e da esterno andavo a Catanzaro a sostenere gli esami.

Di quell‘anno scolastico ricordo il professore Silverio Marasco e la professoressa Guerrieri.

Del professore Marasco ricordo il suo particolare metodo nell’insegnarci il latino. La grammatica e la sintassi per noi come se non esistessero e, infatti, non le abbiamo aperte! Rilevavamo le regole grammaticali man mano che le incontravamo leggendo e traducendo i classici.

Il “Pro Marcello” di Cicerone si prestava molto bene a tale metodo di insegnamento.  Appena si presentava un costrutto particolare il professore Marasco, come se lo vedessi ora!, correva alla lavagna per evidenziarcelo. Ci insegnava anche italiano. Leggevamo i Promessi Sposi. Ricordo un particolare, a proposito del capitolo che riguarda l’incontro tra Renzo e Don Abbondio.

-Quanto ci intrattenne su “degli impedimenti” di Don Abbondio e l ‘incalzante ‘degl’impedimenti’ di Renzo! Il primo avrebbe voluto che quel suo  “degli impedimenti” durasse un’eternità mentre l’altro era del tutto di parere diverso. Infatti, Renzo rincalzando il povero curato tutto d’un fiato proruppe in un ‘degl’impedimenti?’.

Della professoressa Guerrieri, insegnante di greco, mi è rimasta l’attenzione premurosa che riversava ad un mio compagno, che portava un cognome per l’epoca …ingombrante, si sussurrava che il papà in quelle turbolente giornate dell’aprile del 1945 fosse perito tragicamente sul lago di Como.

 

Vi era la professoressa di Francese, Macri, ben disposta verso di me sia perché mi vedeva educato e volenteroso sia perché aveva avuto, in precedenza, come alunno un mio parente molto bravo.

Durante l’anno cercai di fare del mio meglio, ma fui rimandato a riparare greco e latino alla sessione autunnale.

Non per addurre una giustificazione, come detto dianzi, provenivo da scuola privata e quindi l’impatto in quella pubblica non fu facile.

 

Quale fu la mia gioia nel leggere LICENZIATO”!

La riproduzione a lato del Certificato di Licenza Ginnasiale conseguita senza infamia e senza lode, non è stata dettata da alcuna motivazione se non da quella di proporre al cortese visitatore del “Sito”, un documento storico risalente alla prima metà del secolo scorso.

Però, l‘essere stato, in seguito, operatore scolastico quale docente nella Suola Elementare mi induce a delle considerazioni sulla valutazione scolastica di allora e a delle riflessioni sull’evoluzione, nel tempo del metodo di valutazione scolastica. All’epoca la scuola era selettiva. Il docente  era prigioniero di rigidi schemi e nel valutare gli alunni sembrava usasse… il bilancino del farmacista.

A tal proposito ricordo che in prima liceale venni rimandato alla sessione autunnale a riparare latino pur essendo stato classificato agli scrutini finali con cinque e mezzo!…

Non entravo nei panni! E i miei genitori, che erano in trepida attesa, quando ne sarebbero stati informati? Quale soddisfazione per loro!

 

La Licenza Ginnasiale all’epoca era un traguardo scolastico importante e significativo. Da lì a poco, pensavo, sarò un liceale del “Galluppi”! Che io ricordi, in provincia funzionavano pochi istituti classici: a Catanzaro, a Crotone, a Nicastro, ora Lamezia, a Vibo e nei Seminari.

Fui avviato agli studi classici per mia libera scelta oppure della mia famiglia? Né l’una né l’altra. L’avvio dei giovani agli studi classici era determinata da situazioni ambientali.  A Girifalco non si andava oltre la Scuola Elementare, le Medie furono istituite ad inizio anni ’50, le superiori negli anni ’70. A tale deficienza ovviarono egregiamente due sacerdoti di solida cultura umanistica, l’arciprete Don Ciccio Palaia e Don Peppino Palaia.

Il conseguimento di un titolo di studio, laurea o diploma costituiva una conquista sociale da parte di alcuni ceti.

 

Sarei potuto rientrare a casa comodamente l’indomani con la corriera.

- No!, devo arrivare stasera a casa con l’autostop!

Corro alla “Pensione” informo della mia intenzione la signora Anna, di cara memoria e via esco per raggiungere con ogni mezzo Catanzaro Marina e da lì con l’autostop Girifalco.

-Prendo la funicolare per Catanzaro Sala? No! Avevo dato quasi fondo al gruzzoletto che i miei genitori mi avevano consegnato per la mia permanenza a Catanzaro. L’importo del biglietto che avrei risparmiato mi sarebbe tornato comodo in un eventuale rendiconto delle spese fatte! In quattro e quattr’otto, a piedi, sarò a Sala e mi risparmio il biglietto! E giù a capofitto per Sala. Quasi una volata per scesa Gradoni, raggiungo Fondachello e da lì ancora una corsa sono alla stazione di Sala, il tempo giusto per fare il biglietto e trafelato salire sul treno.

Arrivato a Marina mi porto alla Roccelletta, cioè al bivio per Borgia.

Attendo un po’, ma decido di incamminarmi sperando che il mio programmato autostop presto divenisse realtà.

Il sole sta per terminare il suo quotidiano percorso e tende a nascondersi dietro i monti.

Scorgo due contadini seduti sull’uscio di un casolare non lontano dalla strada maestra e dò loro voce:

-Ehi!, per il “Pilacco”?

-EH!, bello mio!, devi camminare ancora!, risponde uno di quei contadini.

E cammina, cammina! Finalmente arrivo al Pilacco.

Il Pilacco, la vecchia strada acciottolata che con qualche deviazione ripetendone il percorso è stata sostituita dall’attuale SP.

Pilacco era chiamata per le pozzanghere che lungo essa erano presenti in ogni periodo dell’anno, forse a causa delle acque della fontana che defluivano liberamente per la strada.

Facendo attenzione, così come mi era possibile in quanto  stavano calando le ombre della sera, mi incammino per la strada, supero la fontana, sembra che tutto vada bene anche se incominciavo ad avere paura. Ma che succede? Il rumore dell’acqua che sgorga dalla fontana mi fa aumentare la paura, ho l’impressione che qualcuno mi stia inseguendo.

“U Pilaccu” era ritenuto “nu malu passu” lungo il quale i viandanti, specialmente di notte, potevano andare incontro a sgradevoli sorprese.

Da quanto si narrava sembrava che i “malintenzionati” lo avessero scelto quale loro abituale sede. A me quella sera non premeva discernere se ciò fosse fantasticheria o se si trattasse di fatti realmente accaduti.

E sant’anche mie, mi metto a correre per la salita sino a quando non  arrivo a Borgia! Prendo fiato e attraverso il paese. E’ già notte! Arrivo al cimitero. Brividi di paura mi corrono per la pelle, il mio sguardo è proteso sempre in avanti, sono tentato di sbirciare a destra ma non lo faccio! Con il cuore che galoppa cerco di affrettare il passo così come mi è possibile, ma qualcosa all’improvviso mi arresta a mezzo il passo!

Un abbaiare di cani mi fa pensare:

Sono perduto!

Ma ho la forza di gridare: chiamatevi il cane! chiamatevi il cane!

Quel cane al di là della strada abbaiava per affar suo, forse alla luna che quella sera rischiarava la mia strada! Che faccio?, torno indietro verso il paese! Alle prime case mi balena l’idea  di togliermi le scarpe, così a piedi nudi non avrei fatto rumore ed inosservato  avrei superato…. quell’ostacolo. Pensato e fatto.  E così continuai per la mia strada. Ma non era del tutto ancora finita!

 

Ecco il bivio per Caraffa, ovvero sono in contrada “Don Gaetano”. Vi abitava la famiglia del Sig. Gaetano Severini della quale mi è rimasta nella memoria una simpatica figura, Donna Nellina alta e tanto magra da contarle le ossa!  A pochi passi mi si para l’immensità oscura  del Piano di Cannavù, tagliata dal rettilineo evidenziato dal biancore della breccia che all’epoca costituiva il fondo di calpestio delle nostre strade.

Tiravo diritto!

Rimettermi le scarpe? Nemmeno per sogno! Non avevo il coraggio di fermarmi, avevo l’impressione che qualcuno mi seguisse. Avevo paura di tutto, degli alberi che proiettavano la loro ombra sulla strada, del trillo dei grilli…  Guardavo avanti e in alto! Le stelle nel cielo mi facevano capire che era l’ora di andare a letto.

Iamma umida nox coelo praecipitat

suadentque sidera cadentia somnio.

 

Arrivato al cuore di Gesù quel cippo(1)  che per tanto tempo era rimasto a ricordo di quei  nostri concittadini che persero la vita il 9-9 1943, mi fece ritornare i brividi di paura e con il cuore galoppante e facendomi più volte il Segno della Croce tirai diritto e in men che non si dica  fui in paese. Arrivato a casa bussai alla porta, i miei genitori erano andati a letto non immaginando che il loro figlio stava passando la notte in cammino! Per i miei genitori il mio rientro a quell’ora insolita fu una lieta sorpresa, portavo una bella notizia!

Rimasero interdetti quando appresero del mio avventuroso rientro!

Mia madre, in particolar modo, non cessava di ringraziare il Signore per avermi fatto rientrare a casa…  sano e salvo!

(1) Per saperne di più il visitatore vada alla sezione “Non Dimentichiamo” e scorra sino a “ Ricordiamo Minicuzza Sergi”)

 

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“In sul calar del sole”

(Dalla campagna verso casa nel secolo passato)

Nel secolo passato vi era una moltitudine di contadini che non disponendo di un mezzo di trasporto in uso all’epoca – carro, traino,o animali da soma  cavalli, muli, asini -  si servivano del “cavallo di San Francesco“, andavano a piedi. Trasportavano le proprie cose sulla testa, se donne, sulle spalle, se uomini. Adulto o minore, uomo o donna, nessuno tornava dalla campagna “scarico“, con le braccia penzoloni. Ognuno, secondo la propria condizione o età, doveva portare qualcosa: un fascio d’erba sotto l’ascella, panieri colmi di frutta fresca appena colta, pali o tronchetti sulle spalle, fasci di legna d’ardere sulla testa o cesti colmi di prodotti di stagione, nonchè a spalla gli attrezzi di lavoro.

 A sera scendeva dalla montagna una folta schiera – variopinta e variegata per sesso, età e abbigliamento -  che, così come una lunga fila di previdenti formiche, si avviava verso il paese.

Era una serpentina umana che partita dalle contrade che erano state raggiunte ai primi albori andava sempre più infittendosi lungo il percorso con quelli che sbucavano dai viottoli o dalle vicinali laterali che confluiscono sulla strada principale.

Scalpitìo di zoccoli, forti passi di scarpe chiodate, parlottìo si mescolavano in un unico concento a volte interrotto da chi dava voce al proprio figlioletto che attardatosi lungo la strada gli era scomparso dalla vista !

 Camminavano e parlavano, dialogavano su tutto e di tutto: ricordi della vita militare, commenti sul raccolto, informazione sui movimenti della luna, e così via. Era un modo come “non vedere “,o “non accorgersi” che la strada era lunga e poco agevole.

Lungo il percorso vi erano i “mentituri “. Sul macigno de l’(Arciuamu) l’Ecce Homo -ora rimosso-, o alla siepe del Castaneto, sotto a “cruciddha“, posava, ciascuno, il proprio fardello per riprendere fiato e qui, in questi posti di sosta, i discorsi si infittivano: … ci si informava, per esempio, dei parenti che si trovavano nell’America ricca, Nord-America, o in quella povera, America del Sud; se avevano scritto quelli che erano andati nel Cannataro, Canada, e così via.

Intanto il sole volgeva al tramonto, già tutta l’aria imbruniva, tornava azzurro il sereno, e tornavan l’ombre giù da’ colli e da’ tetti al biancheggiar della recente luna e lesti riprendevano il proprio fardello. La squilla dall’alto del Campanile di San Rocco, intanto,  dava il segno che la giornata volgeva alla fine. Si segnava, a quei bronzei rintocchi, quell’umanità laboriosa ed affaticata,e non mancavano implorazioni alla Vergine Santa ed intensi sguardi rivolti al cielo! La giornata iniziata al segno del “mattutino” aveva termine con quello dell’Ave Maria e ciascuno pensava al sospirato e meritato riposo!

Ultime tappe il Vottandieri, per quelli che andavano verso la Piazza, a sud del paese, e la Cannaletta, per quelli che andavano verso il Piano.

Al Vottandieri o alla Cannaletta le ragazze si mettevano le scarpe, si davano un’aggiustata alla persona, se di stagione, si davano una rinfrescata ed evitando le strade principali si avviavano verso casa.

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La famiglia Longo tra Girifalco e San Giovanni in Fiore

(Artisti e Patrioti)

 

Nel Presbiterio della Chiesa Parrocchiale Santa Maria delle Nevi di Girifalco, appeso ad una parete, vi è un bel quadro che attira l’attenzione dei visitatori. Si tratta di una pittura, olio su tela, che rappresenta il tradizionale gruppo iconografico della Madonna del Rosario, cioè la Vergine con in braccio il Bambinello Gesù fra San Domenico e Santa Caterina. L’opera pittorica, che porta la data del 1869 ed è a firma di Raffaele Longo, a giudizio espresso da persona che fu esperta in materia, il compianto prof. Domenico Cefaly, è di buona fattura e in quanto ad esecuzione ricalca i canoni di scuola anteriore a quella dell’epoca dell’autore.

 

Chi era Raffaele Longo? Della famiglia Longo si rinviene traccia a Girifalco sino al primo decennio del secolo scorso. A quanto è stato tramandato ed abbiamo rinvenuto nelle cronache del tempo, i Longo erano una famiglia di abili artigiani che avevano il senso dell’arte, del gusto e campavano delle attivite più o meno attinenti all’arte del dipingere. I Longo erano, infatti, pittori e paratori. In quanto ai paratori nell’Archivio Parrocchiale di Jacurso – annotazione ad futuram memoria apposta sul Registro dei Battezzati nell’anno 1876 – è fatta menzione di Michele Longo, figlio di Raffaele, per il grave incidente in cui lo stesso era incorso mentre con festoni e paramenti allestiva la Chiesa per i festeggiamenti in onore del Santo Patrono e per il cui intervento – si gridò!- il paratore  ebbe salva la vita. I Longo furono una famiglia di patrioti che si interessarono ai Moti del Risorgimento Italiano e che aderirono alla Società Segreta ” Gioventù Italiana e Fratellanza” costituita a Girifalco. Di Raffaele Longo fa menzione Gustavo Valente nel suo Dizionario dei Luoghi della Calabria. Ancora. Francesco Longo nel 1848 prese parte al (fallito) “Campo di Filadelfia” subendone in seguito le  conseguenze di un duro processo che il governo borbonico intentò a tutti coloro che avevano preso parte al movimento di sommossa (E. Bruni Zadra – Memorie di Un Borbonico). All’oggi nell’onomastica di Girifalco non viene fatta menzione di alcun nucleo di famiglia che porti questo cognome. Però, anche se scomparsa  dall’onomastica di Girifalco la famiglia Longo è presente in quella  di San Giovanni in Fiore, dove si sistemò una sua ramificazione. Da ricerche promosse sia nell’Archivio di Girifalco, sia in quello di San Giovanni in Fiore – cogliamo ancora una volta l’occasione di ringraziare il Sig. Domenico Laratta dello Stato Civile della cittadina silana – risulta che tale Vincenzo Longo, anch’egli pittore, figlio di Raffaele, trasferitosi a San Giovanni in Fiore il 15 novembre 1905 contrasse matrimonio con Rosaria Garofalo. I Longo originari di Girifalco continuarono nell’esercizio delle attività artistiche tanto  che a San Giovanni in Fiore vengono individuati con più facilità se nomati i pitturi.  

 ( Pubblicato su ” Il CORRIERE DELLA SILA ” n° 4 – 5 Aprile dell’anno 2011)

Una funzione religiosa d’altri tempi

Sul numero del mese di Aprile 2007 della Rivista National Geografic Italia abbiamo letto un articolo sui riti che si celebrano durante la Settimana Santa a Sessa Aurunca in provincia di Caserta e del quale riportiamo un passo, quello iniziale:

” E’ la sera del Mercoledì Santo. Nella Chiesa di San Giovanni a Villa, a Sessa Aurunca, i membri dell’Arciconfraternita del Santissimo Crocefisso sono riuniti per uno dei riti più importanti della Settimana Santa. Vestiti dell’abito rituale, un saio nero, i confratelli recitano brani tratti dalle Lamentazioni di Geremia e da San Paolo, intervallati con il Mattutino e diverse Laudi. Di fronte all’altare è posta la Saetta, un candelabro dalla forma simile ad una freccia, su cui brillano quindici candele. Dopo ogni cantico, accompagnato dal suono dell’harmonium, viene spenta una candela. Quando ne rimane accesa una sola, l’officiante prende la Saetta e la nasconde dietro l’altare. La chiesa rimane nel buio più completo, ed è allora che inizia il “terremoto” : tutti i presenti iniziano a battere piedi e mani sui banchi. Le tenebre e il frastuono simboleggiano il caos e il dolore scesi sulla Terra dopo la morte di Gesù. Ma ecco che la candela riappare da dietro l’altare, e il terremoto cessa: è la luce del Cristo, che non si spegnerà mai…”.

Proponiamo agli occasionali visitatori del sito lo stralcio del predetto articolo perchè analoga funzione religiosa veniva svolta anche nella nostra Chiesa Matrice. Come si sa, in forza delle disposizioni del Concilio Vaticano II molti riti sono stati depennati dalla liturgia ecclesiastica. Il rito di Sessa Aurunca veniva, sì, celebrato anche da noi, però, con delle varianti e con alcune connotazioni, diciamo, folcloristiche.”Le Tenebre”, così come era detta la funzione religiosa, venivano celebrate nelle ore vespertine dei primi tre giorni della Settimana Santa, lunedì, martedì e mercoledì. Sul presbiterio e di fronte all’altare veniva sistemato un grande candelabro di legno a forma di triangolo con quindici candele accese, di cui una, quella posta al centro, era bianca. A sinistra sedevano gli officianti, ricordiamo l’Arciprete Don Ciccio Palaia, Don Peppino Palaia e Don Bonaventura Autelitano, a destra vi era l’harmonium al quale nel tempo si avvicendarono gli organisti Rocco Palaia, Ciccio Chiera e Peppino Loprete. Sui banchi del coro, sistemato lungo i lati dell’abside, sedevano i cantori tra i quali il Chierico Don Ciccio Palaia, che pur non ordinato sacerdote, perchè costretto a lasciare gli studi essendo improvvisamente divenuto non vedente, non aveva dismesso l’abito talare ed era accolto dai sacerdoti della Parrocchia nella  loro colleggiata, infatti, anche se non poteva concelebrare, partecipava a tutte le funzioni quale “confratello religioso” . Iniziavano i canti e ad ogni fase della funzione  veniva spenta una candela sino a quando non fosse rimasta quella centrale, la bianca, che veniva portata in sagrestia, ubicata, allora, dietro l’altare, che in seguito demolito fu sostituito dall’attuale “mensa”. A questo punto veniva intonato il Miserere. Al termine del canto del Salmo di David l’Arciprete dava dei colpetti sul libro dei canti che teneva in mano. Era il segnale al sacrista o a chi per lui perchè si facesse sulla porta della sagrestia con in mano la candela accesa, quella bianca. Con quell’atto veniva fatta memoria di quanto avvenne quando Gesù spirò sulla Croce.L’Evangelista Matteo ci tramanda: “…dall’ora sesta fino all’ora nona si fece buio sulla Terra…il velo del tempio di Gerusalemme si squarciò da cima a fondo, la terra tremò, e le rocce si spaccarono…(Mt 27,47-51)”.Quello che avveniva nella Chiesa Matrice era tutt’ altro da una finzione simbolica ordinata, composta, contenuta entro i limiti della decenza. Sembrava che non tutti avessero coscienza del “mistero” a cui la funzione e la finzione erano riferite. Appena da dietro la sagrestia appariva la candela accesa, si scatenava…il finimondo. Ciascuno dei presenti, come poteva e a suo modo, si adoperava a fare rumore. Il frastuono, però,  proveniva dal  fondo della Chiesa. Nella parte dove di solito stazionavano gli uomini, al di qua delle transenne che delimitavano lo spazio occupato dalle donne, in fondo alla navata, infatti, venivano escogitati modi e mezzi per fare rumore. Il grande portale interno per i colpi ricevuti si spalancava di botto con assordante fragore e stridore dei saliscendi, si batteva sulle suppellettili e dall’alto della vecchia scala di legno per il campanile non di rado si lasciavano rotolare grossi massi di pietra. Terminava, così, la funzione delle “Tenebre”. Invano l’Arciprete Palaia richiamava i più scalmanati alla valenza della funzione religiosa e del conseguente atto simbolico e raccomamdava moderazione e decenza. A noi giovani di una volta gli anziani raccontavano che il predecessore di Don Ciccio Palaia, l’Arciprete Don Raffaele Lentini, prima che venisse dato il via alla finzione simbolica, munito di un nodoso virgulto, scendeva dall’altare e si portava in fondo alla Chiesa per tenere a bada i più scalmanati.