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Giuseppe Vitaliano
Continente Calabria
Storia e antropologia della regione

(alcune nostre riflessioni)

La pubblicistica regionale  si è arricchita di un testo storico-antropologico che riguarda da vicino la nostra regione. Il prof. Giuseppe Vitaliano, per i “Tipi della Casa Editrice di Soveria Mannelli, la Rubbettino, ha dato alle stampe ” Continente CalabriaStoria e antropologia della regione. L’Autore non è nuovo al pubblico e per le pubblicazioni che conta al suo attivo e perchè stimato ed apprezzato docente di Lettere negli Istituti Superiori. Che la pubblicazione di Vitaliano esca dall’usuale…agiografico e che sia un lavoro che suscita nel lettore particolari riflessioni lo si evince a partire dal titolo, “Continente Calabria…”!   

La Calabria è, sì, un continente! Quando parliamo di continente la nostra mente corre alla varietà di climi, di paesaggi, di lingue o di idiomi, di ceppi di popolazioni o di etnie.Circostanze, situazioni, le predette, che ricorrono da sempre nella nostra regione. La divisione amministrativa della Calabria in Ultra, Media e Citeriore rispondeva alla realta socio-fisica della regione. E non è raro, ancora oggi, imbattersi in qualche pietra miliare riferita alla vecchia denominazione Strada interna delle Calabrie. E l’Autore riporta quanto negli anni ’50 un non calabrese, l’ Ispettore scolastico Isnardi, scrisse a proposito dell’orografia calabrese e quanto questa abbia influito sullo sviluppo regionale. Al dis-continuum fisico fa riscontro quello socio-storico. Si rilevano, infatti…” il topos dei cosentini più latini, dei catanzaresi più bizantini, dei reggini più ellenici”.

Differenziazioni, queste, che si sono perpetuate nel tempo sino ai giorni nostri. Mentre nelle altre regioni si rileva unità geo-politica che ruota intorno alla città capoluogo, in Calabria, invece, si hanno tante realtà geo-politiche, guardinghe fra di loro con grave detrimento per lo sviluppo regionale.  Effetto emblematico di tale situazione il carattere itinerante del nostro Ente Regione, la sede della Giunta a Catanzaro, quella del Consiglio Regionale a Reggio Calabria. E questo perchè nessuno dei capoluoghi calabresi nel tempo è assunto a baricentro o, meglio, centro gravitazionale della regione. Lasciamo al lettore le considerazioni circa lo spreco di energie derivante da questa dislocazione dell’Istituto Regionale.E’ vero, sì, che ai vari dominatori che nel tempo si sono avvicendati interessavano Palermo, Napoli e Bari e la Calabria era terra di conquista e di passaggio, ma è altrettanto vero, lo diciamo con amarezza, che la Calabria e con essa i calabresi non sono adusi a fare tesoro delle occasioni propizie. Ci riferiamo allo stesso Istituto Regionale con il quale i calabresi sarebbero dovuti essere gli artefici dei loro destini; ci riferiamo alle Comunità Montane delle quali si sarebbe dovuto fare tesoro……..

Sì, quella della Calabria è una realtà geografica immodificabile, ma i mali della nostra regione vengono esclusivamente dalla sua posizione geografica  e dalla sua conformazione morfologica? A proposito riportiamo quanto all’indomani del terremoto del 1783 Ferdinando Galanti, inviato in Calabria dai governanti di Napoli, scrisse nella sua relazione: ” La Calamità della Calabria è stata tale, e tanto distruttiva, che offre il campo a poter spaziosamente formare un nuovo sistema di cose rispetto ad essa. Bisogna adunque profittare del momento (Sic!) per formare un piano generale del suo ristoramento da eseguirsi di passo in passo. Tre sono i mali grandi della Calabria ulteriore:

1) la prepotenza dei baroni;

2) la soverchia ricchezza delle mani morte;

3) la sporchezza, la miseria, la salvatichezza, la ferocia di quelle  città e di quei popoli.” ( Rosario Villari, Il Sud nella Storia d’Italia, Edizioni Laterza Bari)

Situazioni oggi non ricorrenti. Sintomatico, però, che il Galante abbia addebitato l’arretratezza della regione esclusivamente a motivi socioeconoci.

Vitaliano, invece, va a ritroso nel tempo e conviene che i mali della Calabria iniziarono con i Romani i quali le fecero pagare la fierezza dei suoi Bruzi accaniti sostenitori del generale cartaginese e tra gli ultimi ad abbandonarlo…e condannava questi indominti montanari alla condizione di peregrini dediticii, come a dire schiavi dell’Impero “. Ed ancora Vitaliano: ” Così il Bruzio pagherà la sua fierezza rimanendo isolato e selvaggio, straniero all’Impero, abitato da un gran numero di schiavi …che nella regione consolidarono il latifondo e con esso l’immobilismo e la miseria”. E allora? La nostra Regione è una miniera di risorse che le provengono dalle stesse montagne, dalle sue zone rivierasche e, quindi, dai suoi mari, dai suoi prodotti tipici, dalle sue intelligenze umane costrette ad evadere, ad emigrare. Basterebbe che il popolo calabrese avesse più fiducia in sè stesso, nelle sue possibilità e non attendere che lo sviluppo del suo territorio avvenga per volontà di altri o per decreto.

Emblematico quanto leggiamo, fra l’altro, sulla sovracopertina: “…Il momento è significativo, anche perchè i Fondi Europei destinati alla Calabria per il settennio 2007-20013, rappresentano, a detta di tanti, ” l’ultimo treno” per la crescita della Regione. Occorre, allora, il contributo di tutti per stimolare e sostenere in questa sfida l’azione degli Organi politici.” …………………………………………………..

 

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MATTMARK

STORIA DI UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA

Una fedele e toccante rievocazione storica di Saverio Basile e Francesco Mazzei

San Giovanni in Fiore, il grosso centro della provincia di Cosenza, noto alle cronache per “Giovacchino da Fiore, il calavrese di spirito profetico dotato” e per i ricercati prodotti del suo artigianato, ha, purtroppo, il suo Giorno della Memoria!

Il 30 agosto, ogni anno, la cittadina silana fa memoria delle tristi giornate di fine agosto e d’inizio settembre di or sono esattamente 45 anni addietro!

Il 30 agosto del 1965 a Mattmark, in Svizzera, sommersi sotto una valanga di ghiaccio perirono centoeotto lavoratori dei quali sette provenienti da San Giovanni in Fiore!

Le strade del progresso sono, sì, impregnate del sudore dei lavoratori !, è, questa, la condizione dell’uomo che deve procurarsi il pane con il sudore della propria fronte, ma non è scritto che debba necessariamente lasciare la pelle sul posto di lavoro!

Ricordiamo che in quei giorni un’ondata di sdegno e di commozione corse per tutto il paese. Delle 108 vittime, infatti, cinquantasei erano lavoratori italiani!

Lo sdegno fu unanime in quanto ciò che era successo a Mattmark era da tempo annunciato, la montagna, come la stampa in quei giorni evidenziava e denunciava, nonostante slittasse, scendesse a valle, chi di dovere si mostro più preoccupato ed attento a che i lavori si concludessero nei tempi prestabiliti che adottare le necessarie misure di sicurezza!

E’ un enorme tributo che i lavoratori spesso pagano per fare la cosa più normale del mondo, lavorare!

Mattmark, con i lavori di costruzione della diga e delle centrali Zermeiggern e Stalden rappresentava un’opportunità di lavoro da non lasciarsela scappare – il lavoro c’era…la paga era buona…la mensa ottima…i capi erano persone umane!-, al momento della sciagura, infatti, vi lavoravano una cinquantina di sangiovannesi.

Ma il nome della cittadina svizzera era destinato ad entrare nel cuore, nella storia di San Giovanni in Fiore in modo così doloroso!

Nel contesto della memoria collettiva della cittadina silana è venuta ora ad inserirsi quale “Libro della Memoria” una pregevole pubblicazione  MATTMARK STORIA DI UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA edita da Pubblisfera. E’ un lavoro fatto a quattro mani. Gli autori, Saverio Basile e Francesco Mazzei, non hanno bisogno della nostra presentazione perchè già noti al grosso del pubblico per il loro impegno nella pubblicistica regionale e non. Basile e Mazzei fanno una rievocazione realistica di quelle tristi giornate. Scorrendo le pagine si respira l’atmosfera grave, di ansia, di spasmodica attesa, di speranze che in quei giorni pesava su San Giovanni in Fiore a cui nel susseguirsi delle notizie toccò porre fine al Sindaco del tempo, Giuseppe Oliverio, con una sconfortante espressione, non ci rimane che piangere!

L’esposizione dei fatti, ci sia consentito il termine, è onomatopeica in quanto si sente, si vede ciò che è scritto, ciò che viene letto! E’ una pubblicazione tutt’altro che celebrativa, per l’occasione, la ricorrenza e niente più! E’ un lavoro documentale perchè documentato dalle testimonianze dirette da chi visse quelle giornate e che per miracolo non lasciò la pelle come toccò in sorte ai  compaesani e compagni di lavoro. Per la cronaca, lo stesso Basile coautore del lavoro fece parte della delegazione ufficiale che in quei giorni si portò a MATTMARK sul luogo della sciagura.

Vi si raccontano storie di toccante umanità: Chi era partito per raggranellare una certa somma per comprarsi una macchina per fare il noleggiatore; chi era partito perchè “…doveva comprare gli arredi per lo studio medico della figlia”; chi era partito – ironia della sorte!- con spirito di obbedienza al proprio genitore, già emigrato in Svizzera, così come avrebbe obbedito al Padre Celeste se invece la sua vocazione ecclesiastica si fosse potuta concretizzare con il bianco saio dei Padri Domenicani.

La pubblicazione di Basile e Mazzei, come abbiamo detto, non si limita alla rievocazione del doloroso avvenimento. Vi sono squarci socio-storici di una cittadina in cui il fenomeno dell’emigrazione con tutte le sue problematiche è stato presente nel passato, ma che purtroppo ” ancora oggi, in pieno Terzo Millennio, il fenomeno dell’emigrazione continua…solo che oggi è cambiato il tipo di valigia, non più di cartone.”

A margine delle nostre note non possiamo sottacere la bella “Presentazione” di Annarosa Macrì. In poco più di due paginette la Macrì con accenti struggenti e stringenti, quasi pieni di rabbia, evidenzia il fenomeno dell’emigrazione in tutta la sua drammaticità. E addita, la Macrì, il lavoro di Basile e Mazzei alla gioventù studiosa perchè non dimentichi le proprie origini, i genitori e, anche se tra le righe, propone a giusta ragione, l’entrata  della pubblicazione nelle Scuole di San Giovanni in Fiore.

” Dovrebbero impararli ad uno ad uno, questi nomi, i ragazzi delle scuole di San Giovanni in Fiore, come una dolente litania civile, per non dimenticare chi sono i loro padri…”

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(Sacra terra mia)
di Francesco Zaccone

Presentazione

Signore e signori,

non intendiamo questa sera procedere ad un’analisi critica del lavoro del nostro caro concittadino, Francesco Zaccone.

Lasciamo che la facciano gli altri, nella considerazione che potremmo essere tacciati di partigianeria, oppure incorrere in un inopportuno autolesionismo al fine di dimostrare una nostra sviscerata imparzialità.

E’ antipatico parlare delle cose proprie, è meglio che siano gli altri a parlarne!

Della poesia di Francesco Zaccone s’è parlato e se ne parla!

La poesia del nostro concittadino è già stata al vaglio della critica, severa e precisa!

E’ la critica dei concorsi dai quali sono scaturiti giudizi molto lusinghieri per il nostro poeta.

Mi è gradito in questa occasione citare alcuni dei premi che il nostro concittadino ha conseguito in importanti competizioni letterarie e che, fedele al suo stile di persona che agisce in assoluta discrezione, non ha mai sbandierato ai quattro venti:

  • Il 30 Aprile del 1983 vince il primo premio nel Concorso Nazionale Letterario “Città di Rende”;
  • Nel Settembre del 1983 si classifica al primo posto tra i concorrenti al Premio Nazionale di poesia “La Lizza d’oro” ;
  • Riceve il Pino d’oro al ” Premio Internazionale dei Due Mari”.

Sono gli altri a confermare la valenza poetica dei versi, delle rime del nostro Poeta, e non è cosa di poco conto!

Noi questa sera per congratularci, per complimentarci con Francesco Zaccone per questa sua ulteriore creazione poetica.

Dunque, le nostre congratulazioni, le nostre sincere e doverose manifestazioni di affetto.

Francesco Zaccone è un autodidatta, di quelli autentici!

Essere per il nostro tempo autodidatta è cosa facile, sono innumerevoli gli stimoli, le sollecitazioni alla cultura che la vita quotidiana oggi offre.

Nel passato non era così, non a tutti era consentito, non era possibile entrare nel tempio della cultura.

Francesco Zaccone al suo inappagabile desiderio di sapere ha accomunato sempre una tenace volontà e sin da ragazzo dimostrò una grande voglia di sapere.

A scuola era il beniamino dei maestri, certamente nè per censo nè per altre fortune.

Era l’alunno più volenteroso, più studioso, più educato, l’alunno additato agli altri quale modello da imitare!

Mi tornano alla mente le lunghe passeggiate, con noi più fortunati di lui. Cercava di carpire dai nostri discorsi qualcosa che a lui, nella sua umiltà, pensava che mancasse.

Me lo ricordo come se fosse oggi…quel grosso suo quaderno, pieno zeppo di scrittura minuta, che passava di mano in mano, in mezzo a noi che avevamo avuto la fortuna di essere avviati agli studi.

Pensava che noi ne sapessimo di più e ce lo affidava come se noi fossimo il suo crogiolo, ma a noi non era dato altro che rimanere incantati, meravigliati!

F.Zaccone vanta al suo attivo una ricca produzione letteraria, ben tre pubblicazioni di poesie: “Canti di Carruse“, “Arie di Primavera” e “Luoghi di Girifalco” che questa sera abbiamo l’onore di presentare.

I primi due volumi, che tutti noi conosciamo, contengono i canti della giovinezza, in essi i sentimenti, i desideri, le speranze, le idealità si alternano ai personaggi, alle cose. Canta la semplicità della società contadina, canta la natura nella quale si sente immerso a guisa di saltellante uccelletto …………………………………………………………………………………………………………

Puru io sugnu n’uccellu

chi giriju sti sentera,

nu minusculu stornellu

de na curta primavera;

E, cantandu, satarriju:

nenta cchiu mi ‘hacia gula

e mi tempru, mi sazziju

cu la lucia de lu sula.

Lo scenario della sua poesia è la natura, la natura con le sue cose, con i suoi esseri viventi.

Canta la semplicità dei campi.

Chi come me ha vissuto in queste contrade e luoghi la parte più bella della vita, rivive quei tempi con nostalgia.

Balzano alla mente uomini e cose, riecheggiano nelle orecchie voci, suoni, rumori.

La vita ferveva, un tempo!, e le casette, addossate l’una sull’altra, non erano altro che alveari di api operose.

Dal fondo dei ” bassi ” arrivava il battito secco del telaio, mentre il tipico rumore della macchina da cucire si univa al vociare allegro delle ragazze che andavano ad apprendere l’arte e di tanto in tanto lanciavano fuori, nella strada, occhiate desiose e fuggitive.

L’artigiano al suono della campana chiudeva la bottega per la breve e parca sosta di mezzogiorno, quando suonava la campana dritti tutti a casa, a prescindere dalla tavola imbandita o non.

Si sperdevano per la strada gli scalpitìi degli asini, mentre il contadino sgridava il monello…per il ciuffo di erba che aveva sottratto dalla soma del suo asinello.

La buona e previdente massaia, spargendo davanti al proprio uscio una manciata di becchime, attenta e vigile che non si avvicinassero quelle della vicina di casa, facendo un caratteristico verso, chiamava a controllo le sue galline che, in testa il gallo, accorrevano svolazzando.

Dalle ” graste ” , posate su balconi e finestre, scendevano giù le variopinte campanelle, i gerani spargevano nell’aria il loro aspro odore, i garofani ” scritti ” rivelavano in quella casa la presenza di una giovinetta.

Non mancavano i vasi di “vasilicò“, di “petrusinu“, o di rossi peperoncini.

Questi luoghi a sera si animavano ancor di più, rincasavano dalla campagna i contadini che allo spuntar dell’alba avevano lasciato i loro umili giacigli.

Era un vociare garbato, sommesso, si scambiavano i saluti, ci si informava di come era andata la giornata.Ardeva, intanto, sul focolare la fiamma schioppettante alimentata con frasche di castagno. Ci si preparava, così, alla meritata e frugale cena dopo una giornata trascorsa nel duro lavoro dei campi.

Quanti ricordi, quanta nostalgia suscita la lettura di “LUOGHI di GIRIFALCO“.

Mi sia consentito fermarmi fugacemente solamente su due “luoghi” perchè non voglio togliervi il gusto di scoprire direttamente “questi strati e riuni”così come Zaccone ce li presenta.

“Strati e riuni” che ” sugnu lu specchiu, na pagina scritta – de storia nostra, storia beneditta”.

“Lu Vottandieri”, la vedetta degli innammorati.

Di là, dall’alto, l’occhio spaziava ampio.Si scrutava in lungo e in largo con occhi ansiosi ed indagatori in una spasmodica attesa di un volto, di una andatura, di una sagoma ben nota. Allora non vi era Viale Migliaccio, il luogo d’incontro della gioventù amorosa.

“La Cannaletta” che potremmo definire la lavatrice e la piscina di un tempo!

” a manca e a destra ciabba e lavatura…,”

a destra la cìabba, la vasca che raccoglieva l’acqua per irrigare gli orti circostanti e che d’estate veniva scambiata per piscina: Turi, Cicciu, Peppinu, Luiginu… in costume adamitico vi gareggiavano in ardimentosi tuffi.

All’improvviso, minaccioso con una frasca in mano, arrivava l’ortulanu de Don Filippu, Mattìa Corijisima, ed era un correre disordinato a nascondersi dietro le siepi in attesa che qualcuno portasse loro i vestiti. A sinistra il lavatoio pubblico. Le nostre mamme vi si recavano di buon mattino con l’intento, ciascuna, di occupare i posti di testa. Si assammarava, prima dell’incinnarata veniva fatta una prima lavatura, una sgrossatura.

Guai a chi si fosse permessa di lavare alle fontanelle, mastru Ruaccu Scicchitano, il fontaniere, vigilava perchè questo non avvenisse.

Tra una strizzata o stricata e l’altra si parlava di tutto, tutte le notizie arrivavano alla Cannaletta e dalla Cannaletta si diffondevano per il paese!

Era pure un luogo d’incontro della gioventù amorosa.

Durante le serate di plenilunio dalla Cannaletta arrivavano i canti e i suoni degli innammorati, o durante il periodo pasquale, le “STAZIONI” della Via Crucis, mo, cca, cchiu non si sona nè si canta – nemmeno l’acqua sua frisca si viva.

Lu “Vottandieri” la vedetta degli innammorati, la “Cannaletta” la via degli innammorati. Le ragazze andavano e venivano da e per questi luoghi. Nelle case, là dove c’era una ragazza, difficilmente mancava l’acqua!

I barili o le brocche erano sempre vuoti oppure l’acqua era sempre addemurata e, quindi, si doveva andare alla fontana!

Con “LUOGHI di GIRIFALCO” Zaccone sembra che si pieghi su sè stesso, in una profonda riflessione sul passato e gli sovvengono ricordi e visioni. E la sua Musa si scioglie in un canto sui luoghi semplici, ma cari alla memoria. Luoghi piccoli e stretti dove regnò umiltà e bontà che ad esse fu fatto onore. Al giovane e frettoloso passante questi luoghi, ora silenziosi e fatiscenti, nulla dicono, come da niente sarebbe attratto, se non dalla mole, l’ignaro viaggiatore alla vista del Colosseo se storia e tradizioni non gli venissero in soccorso, storia e tradizioni che vivificano le cose che sembrano morte.

LUOGHI di GIRIFALCO” ha il sapore di storia.

Mi sia consentito fare un apprezzamento.

Zaccone ha il merito di averci dato il primo libro di storia su Girifalco e merito ancora particolare è quello di essersi servito della poesia. Sappiamo che la poesia tocca i sentimenti, con essa vengono espresse le più alte idealità!

Sappiamo che la storia si riveste di poesia, è poesia quando assume carattere di epopea!

La cetra del nostro concittadino ha saputo coniugare poesia e storia. Con accenti umili, ma intensi ci ha squadernato tutto il nostro passato, con la forza del ritmo ha toccato il nostro cuore!

Gli anziani, leggendo “LUOGHI di GIRIFALCO“, con nostalgia si rivolgono al passato e guardano la lunga strada che si è fatta! Ai giovani la conoscenza della storia servirà d’insegnamento, di stimolo perchè non si adagino sul presente, il presente dovrà costituire una pedana di lancio per ulteriori avanzamenti.

Con il suo lavoro Zaccone partecipa attivamente al movimento didattico-letterario che va sotto il nome di educazione ambientale.Vi è una riscoperta e rivitalizzazione delle memorie, del passato. Il turbinìo della vita moderna con tutti i suoi problemi d’ordine ambientale ci induce alla scoperta del tempo andato.

E Zaccone si sente in dovere di trasmettere il suo messaggio perchè ” cu sapa ncuna cosa e no la ‘nzegna – è perzuna de vantu puacu degna:”

Ancora, un doveroso saluto ed altrettanto doveroso ringraziamento all’Editore Ursini per l’ottima veste tipografica di cui ha dotato il lavoro del nostro poeta.

Un saluto che è pure d’incoraggiamento, sappiamo fra quante difficoltà operano gli editori nella nostra regione.

Un ringraziamento alle ragazze che hanno dato la loro preziosa ed entusiastica collaborazione per la migliore riuscita di questa manifestazione.

(Salvatore Stranieri)

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La mia poesia
di
Angela Iapello Mellace

Introduzione di Salvatore Stranieri

Volentieri ho aderito all’invito rivoltomi dalla nostra poetessa a curare una sua pubblicazione di poesie. La gentile richiesta, a dire il vero, per un verso mi ha lusingato molto – vanità umana! – per un altro verso ho sentito che sarebbe stato mio dovere rispondere affermativamente. La Iapello mi richiama un passato trascorso alla “Cannaletta”, là dove anche io sono nato e sono cresciuto e ogni giorno, anche se conto non poche primavere in più, le nostre quotidianità si intrecciavano, non a caso il sottotitolo “ Profumo Antico ”! Al ricordo di quei luoghi, delle persone che vi abitavano e ora non ci sono più, dei rapporti familiari e di sincera amicizia che legavano tutti quelli della “ruga” quale nostalgia! E alla Via de “La Cannaletta” (Via Fontana e Parriadi) dove, nella piazzetta, nelle sere di plenilunio i giovani intonavano alle innamorate le loro appassionate serenate, vi era un fervore di attività. Vi era la “Posta”, il forgiaro, il bastaio, il calzolaio, il sarto-barbiere e le sartine, la tessitrice e le loro voci frammiste ai rumori tipici di quegli antichi mestieri mi risuonano nelle orecchie e mi inondano il cuore di dolce mestizia! Di quel mondo ora, là, poco o niente è rimasto
Mo’ casi viacchi, bbandunati…
No nc’è vita ntra chiddhi mura.
La sira quandu passi pe chiddhi strati
mu li vidi ti vena la pagura.
E, dunque, senza pensarci mi sono messo a lavoro che, però, giorno dopo giorno andava dimostrandosi un’ardua fatica e, confesso, sono stato più volte sul punto di desistere. Non l’ho fatto e per non deludere la Nostra e per non venire meno a ciò che io, non so perché, avevo ritenuto un dovere.
Gentile lettore, mi sono trovato dinnanzi a un torrente in piena. Angela Iapello vive per la poesia, sogna poesia! La cadenza temporale della produzione poetica, che si nota scorrendo le pagine, rivela quanto sia fecondo il suo estro poetico.
La pubblicazione è divisa, per così dire, in due sezioni, nella prima le poesie in vernacolo alle quali seguono una ricca raccolta di filastrocche e detti popolari ed, infine, un glossario, nella seconda sezione, invece, prende posto una nutrita produzione poetica in Lingua.
Poesie in vernacolo

Sono circa cinquanta componimenti poetici nei quali la Iapello ferma un mondo scomparso la cui rievocazione suscita nostalgia in chi l’ha vissuto ed incredulità in chi non l’ha conosciuto. Quello che rievoca la nostra poetessa un mondo in cui la lotta per la vita era, sì, dura, però, si sentiva il sapore della sudata conquista, conseguita giorno dopo giorno, così come viene posta pietruzza su pietruzza. Non ci si poteva, allora, distrarre. Si era protesi di continuo con il pensiero al domani. E la ragazza arrivava all’età di marito con la dote bella e pronta nella cassa. La mamma, infatti, previdente, gliela aveva raggranellata sin dalla nascita, lenzuolo su lenzuolo, coperta su coperta, perché all’epoca una buona norma dettava “zziteddha ntra la ‘hascia, a dota ntra la cascia.”
Originali i quadretti di occasionale vita vissuta che rappresentano la semplicità della quotidianità di una volta, soffusa di genuità e di poesia! Ed ecco le ragazze sull’aia, impegnate a sgranare le pannocchie del granturco, fanno a gara ad individuarne una speciale dalle cui caratteristiche trarre presagi per le loro aspirazioni amorose ( ‘U spicuna). Era un modo, quello, come divertirsi.
E ccussì passavunu ‘u tiampu li cotrari,
scupanandu lu spicuna, allegri si sentianu.
E le vesti, le foglie esterne che racchiudono le pannocchie, una volta costituivano il ripieno dei sacconi, gli umili giacigli di chi non poteva permettersi un soffice materasso ripieno di lana.
Lu spogghiavanu de li viesti e li cummari,
pemmu inchianu lu saccuna, si nda servianu.”
E vi erano quelli che sbarcavano il lunario ricorrendo ad espedienti, esercitando attività fra le più strane, per esempio, ‘ u sampavularu’ o colui che andava offrendo biglietti d‘ a ‘hortuna. E ci si faceva sull’uscio non perché si dava credito alle loro ciarle, ma perché, per i tempi, davano spettacolo. Ancora. Simpatici i quadretti relativi a “Lu contadinu mbiacu” e a “L’uamu de panza”. L’uno dopo una giornata di lavoro va alla cantina e
cerca nu puacu de ristoru
e vva mu si viva nu quartu de vinu,
ma ritornato a casa ubriaco non sa cosa fare,
cuamu li gira ntra chiddha testa,
mu ‘hacia liti o mu ‘hacia ‘hesta,
ma s’addormenta cuamu n’agghiru
cu tutti li scarpi lu contadinu ,
l’altro, invece,

lavora de la matina a li sira…

ma ntra li taschi no li resta na lira.

Non tralascia, la Nostra, nessuno degli aspetti di quella società, ormai archiviata, passata alla Storia quale società-civiltà contadina, La simina, La vindigna, la dura vita de Lu contadinu de na vota.

E a la lucia de la lumera

si vesta lestu lu contadinu.

Non poteva mancare una componente tipica di quell’ economia, Lu ciucciu.

Na vota cu avìa nu ciucciu

avìa nu capitala,

era nu mezzu de trasportu e de lavoru.

Lu contadinu de tuttu carricava,

cu avìa nu ciucciu avìa nu tesoru!

Ed ecco I misaruoli, le raccoglitrici di ulive che spartivano con il padrone in ragione della sesta parte, alla raccoglitrice spettava un sesto di quanto aveva raccolto durante la giornata.

Cu la schina a vasciuni sutta l’olivara

cogghìanu olivi tutta la jornata;

si ‘hermavanu sulamenta

pe mangiara

e si ‘hacianu puru ncuna cantata.

La Iapello porta con sé uno struggente rammarico di non essere potuta andare avanti con gli studi, finita la scuola elementare. E forte dell’amara esperienza fatta in terra straniera addita il valore, l’importanza de Lu sapira e fa l’apoteosi de La pinna

Sulu cu ttia arrivau lu progressu,

l’intelligenza e lu sapira.

L’uamu restava nu piscia lessu

si nno n’avia a ttia…

la pinna pemmu scriva!

La rievocazione del passato non è fine a sé stesso. O tempora! O mores! Niente di tutto questo! Non si ha rimpianti, anzi! Viene richiamato il passato perché le giovani generazioni facciano un’analisi comparativa con il loro presente e si rendano conto di quanto siano cambiati i tempi, di quanto e come sia migliorata la vita. E poi, gli usi di una volta oggi non sarebbero possibili, qualora si volesse praticarli, perché non lo consentirebbe il ritmo della vita moderna. A fare il bucato un tempo ci si metteva più giorni. La vucata” era un rito per chi doveva farla, una festa per i bambini, felice, ciascuno, di andare al fiume con la propria mamma. Ci si accontentava di poco! Riecheggiano nelle orecchie gli sciacquìi, le voci, i canti che salivano dalle fiumare! E sciacquato, levato il ranno, il bucato veniva disteso ad asciugare sui cespugli,
De ‘hesta chiddhi juarni si vestìa Jidari,
quandu iddha li panni a lu sula amprava
supa li struaffi de profumati jinostrari
e doppu asciutti a la casa si li portava.
………………………………………
Mo’ passau lu tiampu de lu ‘hiuma,

quandu tuttu si lavava a mmanu.

No ssi lava cchiu cu lu sapuna

ca na machina chi llava nventaru!

Allora si nasceva in casa e non si badava a tanto, correndo, però, seri rischi sia il nascituro sia la partoriente!

Quandu la ‘himmana

de parturira avìa

la levatricia si chiamava.

………………………….

Iddha pronta li ‘herra portava

sperandu nommu potianu servira.

……………………………………………..

A lu Signura raccumandava la ‘himmana

c’avìa de parturira.

E “la levatricia” dopo pochi giorni, accompagnata da alcuni bambini che portavano l’occorrente per la somministrazione del sacramento del Battesimo – acqua, sale e pane – senza alcuna pompa, portava e teneva il neonato al fonte battesimale divenendo in tal modo madrina della maggior parte dei bambini del paese.

Era sufficiente un mazzetto di garofani scritti, di quelli che un tempo scendevano dai davanzali delle finestre delle nostre case, scambiato nella ricorrenza di San Giovanni, ad intrecciare fra due famiglie un’intimità di rapporti che venivano tramandati di generazione in generazione (Li cummari de San Giuanni).

Che dire, poi, del mondo attinente alla gioventù…amorosa? Allora fra uomo e donna, in modo particolare fra i giovani, non vi era facilità di rapporti. Si avvertiva molto forte il disagio dell’accentuato distacco intercorrente fra giovani di sesso diverso. A scuola le classi miste erano una rarità! I tempi erano quelli, però, non per questo i giovani non riuscivano ad eludere la severa vigilanza dei genitori. Il “Vottandieri” era il luogo ideale degli appuntamenti, degli incontri amorosi. In casa vi era sempre bisogno di acqua fresca e la ragazza molto volentieri provvedeva a quella necessità domestica! La ragazza innamorata riusciva ad escogitare l’espediente, a trovare la scusa per uscire da casa ed incontrarsi con l’amoroso.

Si bbua mu vidi

l’amuri appuntunatu,

pigghiati la paletta

e nescia a ffuacu.

Si la tua mamma

dicia ca ti hai mpacciutu,

rispundi ca no trovasti

na scagghia de ‘huacu.

………………………..

Nemmeno quando si era fidanzati ufficiali, cioè quando si aveva il permesso di andare in casa dell’amorosa cessava…l’astinenza, nemmeno allora vi era possibilità di dimestichezza di rapporti fra i promessi sposi (Li matrimoni combinati).

Li fidanzati stavunu attianti,

sulu cu l’uacchi si potianu accarizzara,

d’ammienzu nc’eranu sempa li parienti

e all’ammucciuni na vasata potìa scappara.

Quanta diversità, oggi, di costumi!

Li tiampi mo’ cangiaru e la cotrareddha

mona lu zzitu si lu trova sula.

Passijanu nzema a li Poteddha,

supa lu Corzu senza mu ha pagura.

In Tiampi passati, La vacca la Nostra richiama, nell’una, l’atmosfera di familiarità, di amicizia e di calore umano

quandu de petra eranu li strati

e la genta seduta a rrota a rrota

cuntavanu ‘harahuli de li ‘hati,

nell’altra, traendo spunto da una simpatica vicenda familiare, richiama un insegnamento, sempre attuale, e che faceva parte di quella saggezza popolare

cu prima nno penza, all’urtimu suspira!

I componimenti a carattere religioso (L’Arciuamu, Notta de Notala, Santu Ruaccu, ‘U Patraternu, Vennari Santu ) evidenziano la religiosità popolare che si manifesta in modo tangibile in alcune ricorrenze alle cui scadenze , un tempo, ciascuno, uniformava lo scorrere della vita d’ogni giorno.

Per gli accenti toccanti meritano menzione Vorrìa tornara e ‘Higgiu!, nell’uno il desiderio dell’emigrato di tornare in patria, ma che un amaro destino lo ha condannato a morire da straniero in terra straniera, nell’altro il dolore, lo strazio di una mamma.

La Iapello si fa carico di promuovere la valorizzazione del dialetto e suggerisce che venga introdotto nelle scuole. Nella nostra originaria parlata troviamo la nostra identità, la nostra storia. E attraverso essa si può prefigurare una società riportata a quei valori che sono stati propri della forte e generosa terra di Calabria e che si richiamano alla laboriosità, alla famiglia, alla religione, alla solidarietà.

Parramu lu dialettu…

Parramulu a la scola!

Parramulu cu l’amici…!

Per quanto riguarda l’inflessione, la Iapello si richiama al parlare semplice, spontaneo, di tutti i giorni e rifugge da ogni ricercatezza dialettale che spesso travisa, deturpa e rende sgradevole la Lingua dei nostri Padri.
Filastrocche e detti popolari

Molte delle filastrocche sono dovute all’invettiva della Iapello. Dal giovane lettore possono essere ritenute delle banalità, ma non erano tali per i ragazzi di un tempo.

Transitando per le strade del paese non di rado si era colpiti dall’ allegro vociare di frotte di ragazzi che si rincorrevano ripetendo a cantilena le filastrocche più strane e spesso si rimbeccavano componendone con i loro stessi nomi. Era un modo semplice, allora, di quelle giovani generazioni come divertirsi, scherzare e passare il tempo. E’ il caso di richiamare Li juachi de na vota quando con un nonnulla – un pezzetto di legno, una pietruzza, un quadrato segnato a terra – si animavano i giochi dei bambini e le strade risonavano a quell’allegro e gaio clamore.

I detti o proverbi, granelli di sapienza popolare d’ogni tempo, rivelano la prontezza di un popolo ad esprimere i contenuti del quotidiano e ve n’è uno azzeccato per ogni situazione.

Glossario

Non ha le pretese di un dizionario. E’ solo una raccolta di quei vocaboli che potrebbero risultare inintelligibili all’occasionale lettore che non abbia adeguata familiarità con il dialetto.

L’etimologia di alcuni vocaboli – riferita ai grecismi, ai latinismi, ai francesismi e agli spagnolismi – richiama sia le civiltà, greca e latina, che si sono avvicendate nella regione, sia le dominazioni straniere a cui in vari periodi fu sottoposta la Calabria.

Contrariamente all’uso invalso nelle pubblicazioni in vernacolo, i vocaboli che hanno subìto l’aferesi non sono preceduti d’alcun segno distintivo. L’aspirazione tipica nel pronunciare alcune parole e che ricorda la lettura toscana di “carne” è un residuato della Lingua Greca che nel passato si parlava in Calabria e come tale riconducibile al suono della lettera (ch) di quella lingua. E non essendoci corrispondenza grafica nell’alfabeto italiano, seguendo la lezione del Rohlfs, si è ovviato alla deficienza identificando la predetta gutturale greca con la lettera h facendola precedere dal segno d’interpunzione ( ).

Poesie in Lingua italiana

La Iapello evade dal ristretto ambiente locale e con i suoi timori, le sue speranze, le sue riflessioni si affaccia con dignità a una realtà più vasta. Dalle sue poesie traspare una religiosità che avvince non solo l’uomo di Fede.La sua è la religiosità dell’amore, della fratellanza, della pace. Ed i temi sociali del momento vengono affrontati con la delicatezza di sentimenti che le sono propri. Dire che le sue poesie sono belle è troppo poco, sono bellissime! Esprimono un profondo lirismo e a volte il lettore affascinato rimane senza parola. E con alcune poesie – Freddo inverno, Se fossi!, La donna è amore, Cosa è l’amore, Tutto è poesia, Ho disegnato l’amore, Mistero, Profumo antico – per il susseguirsi delle immagini, il crescendo dell’intensità di sentimenti espressi e l’incalzare del ritmo si ha l’impressione di trovarsi sotto una pioggia, una cascata di luccicanti gemme.

La Iapello ha un senso religioso della famiglia. Quale affettuosa riverenza, quale nostalgia, tenerezza dalle poesie che la Nostra dedica, per esempio, al babbo. Dalla semplicità delle espressioni traspare quell’atmosfera di gaiezza che si respirava in famiglia allorché si era paghi di poche cose! La Nostra è un’acuta osservatrice della natura e delle sue varie manifestazioni si serve per esprimere i suoi pensieri, le situazioni d’animo e per dare corpo alle sue delicate immaginazioni.

Salvatore Stranieri