Archivio di » 2014 «

OGGI >>>COME<<<< IERI

Una risposta ambigua
Olim intraverat Romam adulescens simillimus Caesari Augusto et in se omnium ora converterat. Augustus hominem in conspectum suum vocavit atque sic interrogavit: “ Dic mihi, adulescens , fuit aliquando mater tua Romae?” Negavit ille et adiecit: “ Sed pater meus saepe”.
(Macrobio, Saturnalia)
(Un giovane si trasferì dal suburbio  a Roma. Siccome somigliava molto all’imperatore Augusto attirava su di sé gli sguardi della gente. Augusto convocò il giovane e gli chiese: Giovanotto, tua madre qualche volta venne a Roma? Il giovane negò e aggiunse: No! Mio padre veniva spesso a Roma!).

***

Situazioni similari a quella riportata dall’aneddoto di Macrobio – con dovizia di facezie, allusioni, frizzi e lazzi – sono non di rado presenti nella nostra quotidianità.

Ed in riferimento  a questo humor, sia in casi di somiglianza sia in casi di omonimia, proponiamo ai lettori una nostra verosimile rielaborazione.

Due signori sono alla stazione ferroviaria in attesa che arrivino i rispettivi treni, l’uno diretto al Sud, l‘altro al Nord del Paese.

–Non ricordo in vita mia che un treno sia arrivato o partito in orario!, Sbotta il signore diretto al  Sud.

–E’ vero, signore! Il servizio ferroviario non funziona!, ribatte il signore diretto al Nord.

Riprende il primo: da un pezzo ci scambiamo informazioni,   facciamo commenti e ancora non ci siamo presentati!

–Permettete? Sono Antonio Sempronio e sono un Calabrese doc!

–OH! Che bella occasione! Me lo diceva il nonno che fece servizio  militare in Calabria durante l’ultima guerra mondiale: Le belle Calabriselle  gli cadevano ai piedi!

–Io sono Cosimo Sempronio!

–Signor Cosimo, andiamoci piano! I Sempronio da secoli sono presenti in Calabria!

–Mio nonno, Cosimo Sempronio, fece il servizio militare in Piemonte  nella prima guerra mondiale e fece stragi di belle “Tote”.

–E voi illustre signor Cosimo nonché mio illegittimo parente, rinnovate il nostro comune nonno non solo nel nome, ma anche nella fattezze del volto. Con questo naso aquilino vedo in voi proprio nonno Cosimo che fu così prodigo a lasciare le sue impronte ovunque fosse andato!

Categoria: Pagine sparse  Un Commento

E’ MORTO SAVERIO STRATI

Il 9 aprile di questo corrente anno 2014, a Scandicci, moriva Saverio Strati.
Era nato a Sant’Agata del Bianco in provincia di Reggio Calabria il 16 agosto 1924.
Profonda è stata la commozione in Calabria.
I quotidiani regionali hanno titolato la notizia a caratteri cubitali, dandone ampio spazio. Per la Letteratura Calabrese è stata una grave perdita!
Saverio Strati fu il rappresentante di una Calabria sofferente della quale Lui stesso era una diretta espressione!
Con la sua narrativa della storia socio-economica calabrese ha fatto un caso letterario!
Per le giovani generazioni le opere di Strati sono un monito poiché rappresentano  le nostre origini,  le nostre radici.
Ricordiamo con nostalgia gli appuntamenti mensili ai quali era puntuale con un suo racconto sulla Rivista della Regione!
A Girifalco nello stesso anno, 1989, abbiamo avuto il piacere di averlo con noi ben due volte, a maggio per una conferenza che tenne agli studenti del Liceo Scientifico sulle problematiche giovanili e ad Agosto, nell’ambito delle manifestazioni dell’Agosto Girifalcese .
Mi sia consentita una digressione di carattere …autobiografico.
Di Lui avevo notizie prima che diventasse il noto scrittore.
Eravamo nella Segreteria del Liceo in attesa che si facesse ora per la conferenza che avrebbe dovuto tenere agli studenti.
-Dottore Strati pare che qualcuno di Girifalco negli anni degli studi a Messina vi sia stato molto vicino. Faccio un nome?… Saverio De….
-Saverio  Defilippo!, subito mi interruppe non consentendomi di completare il cognome.
Saverio Defilippo, in seguito Primario Odontoiatra al “Pugliese” di Catanzaro, ebbe sempre ammirazione e stima per Saverio Strati. Ricordo che mio cugino Saverio me lo proponeva come modello da imitare. E poiché all’epoca manifestavo di tanto in tanto svogliatezza negli studi mi spronava dicendo:
-Salvatore, studia!….sapessi che amico ho a Messina!… nu cacijuolo studente a Lettere!
Sì! Saverio Strati prima che si desse agli studi era un cacijuolo, un apprendista muratore addetto alla preparazione della malta.
Saverio Strati dimostrò una volontà adamantina. L’apprendista muratore, dismessi pala, cazzuola e piccone, si cimentò con latino e greco e, conseguita la maturità classica, si scrisse a Lettere all’Università di Messina.
Nel nostro conversare colsi un certo senso di amarezza nei confronti della Calabria, ma di quella ufficiale!
-In Toscana non sanno cosa fare per ……. (mi disse un nome)!
Nemo propheta in Patria! In seguito ci volle la generosa e dura campagna del “Quotidiano” perché Strati fosse ammesso ai benefici della Legge Bacchelli!
La conferenza che Strati andò a tenere riscosse, sì,  l’approvazione degli studenti e del corpo docente, ma molti e molti furono quelli che protestarono per non avervi potuto partecipare per l’angustia dei locali!
E il caso volle che ben presto si ponesse riparo alla manchevolezza in cui erano incorsi gli organizzatori!
L’Amministrazione Comunale, presieduta dal Dott. Pietro Defilippo, nell’ambito  delle manifestazioni dell’ Agosto Girifalcese di quell’anno, gli rivolse cortese invito perché tornasse a Girifalco.
La conferenza ebbe luogo il 28 Agosto  del 1989 al Cinema Ariston e, dopo il caloroso saluto rivoltogli dal Sindaco Defilippo,  chi scrive ebbe l’onore di introdurre con un breve intervento
l’illustre nostro conterraneo.
Ritenendo di fare cosa gradita agli  occasionali visitatori del ”Sito” si riporta, di seguito, integralmente il testo della conferenza.
Parlare del contadino del Sud è della sua presenza come soggetto nella letteratura è impresa molto complessa che richiederebbe un esame molto approfondito e lungo. Per quanto mi riguarda, potrei benissimo dire  che le interpretazioni che gli altri hanno dato sul contadino da un punto di vista critico e storico-economico mi arricchiscono di poco- Le ragioni sono che io  all’età di vent’anni e passa sono stato un contadino e muratore in insieme. Mi sono cioè formato fra i contadini e gli artigiani di cui ho assorbito lingua, pensiero e sentimenti, di cui ho imparato a conoscere ansie, desideri e rabbia fin dalla più tenera età.
Parlare in senso stretto di contadini non è proprio esatto: per il semplice fatto che non tutti quelli che durante il fascismo coltivano la terra erano zappatori;  non tutti quelli che chiedevano ai proprietari terrieri un podere erano dei giornalieri,.
C’è un’espressione dalle mie parti che pochi conoscono e che nessuno studioso della cosiddetta questione meridionale ha esaminato; un’espressione che per me ha un peso storico di grande importanza. Dalle mie parti, in quel lontano tempo del fascismo quando io nascevo e mi formavo, i muratori, i falegnami, i fabbri, i calzolai e perfino i sarti- dico perfino- perché il sarto come il barbiere, era un artigiano più raffinato e delicato, anche fisicamente meno adatto ai lavori duri della terra, perfino i sarti prendevano in affitto la terra dei ricchi e venivano chiamati mastri-massari. Di questo gruppo di mastri- massari fece parte mio padre che era muratore e di conseguenza  ne feci parte anch’io che dovetti fin dalla più tenera età imparare a dissodare la terra e a costruire un muro a secco, dato che non era possibile imparare il mestiere per le vie normali, cioè lo Stato no  costruiva case e strade, perciò era assai difficile fare l’ apprendista muratore; e io, come tanti miei coetanei (il problema era di tutti gli artigiani che avevano figli) e io nei disegni di mio padre dovevo ereditare la cazzuola, il suo sapere, come un principe eredita la corona. Un fatto come questo andrebbe esaminato profondamente per capire come e perché certe culture si salvano, sopravvivono. Generalmente l’uomo sano non si lascia  sopraffare dall’ottusità e dalla repressione politica.
Vincenzo Padula mise a fuoco tanti problemi del mondo contadino nel suo importante libro “Persone in Calabria”. Lo stesso Alvaro, specie nei saggi, Treno del Sud, Itinerario Italiano, fece luce su molti aspetti del mondo contadino. Un quadro molto colorito del mondo contadino viene fatto da Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli; altri scrittori di livello mondiale hanno introdotto il  contadino nella loro opera artistica: Verga, Pirandello. Ma a me pare che il contadino viene visto più come oggetto che come soggetto. Cioè non era diventato  personaggio capace di fare storia, di pensare con la propria testa. Ferma restando la sua grandezza di narratore, lo stesso Verga ha verso gli umili un atteggiamento che oserei chiamare paternalistico. Gli umili cioè sono sempre un pochino presi in giro, un pochino compatiti, un pochino messi in ridicolo; si esprimono per proverbi che sono il bagaglio culturale di millenni di tutta la collettività- Insomma non hanno autonomia. Si pensi poi a Mastro don Gesualdo che è sì capace di creare un ‘immensa ricchezza, ma nel momento in cui deve decidere la cosa più importante della sua vita, di sposare, si lascia convincere ad apparentarsi con i Trao e ha una figlia che non è sua; inoltre assiste impotente allo sperpero della sua ricchezza e reagisce come un tanghero. E’ veramente uno strano atteggiamento – si badi sto parlando di atteggiamento, non di resa poetica che è grande – quel che dell’aristocratico conservatore Giovanni Verga ha nei confronti del muratore Gesualdo Motta- Un atteggiamento di classe, manzoniano e, più vicino a noi nel tempo, crociano. Anche per il Croce il popolo è incapace di pensiero autonomo, di elevazione spirituale.
In breve il popolo non fa storia. A contraddire questo pensiero c’è una proposizione di Hegel in una delle sue ultime lezioni sulla filosofia del diritto. Hegel anticipando Marx dice: la storia va avanti perché i poveri la spingono in  avanti. Abbiamo visto prima, a conferma di quest’affermazione hegeliana, con quale accanimento gli artigiani si davano da fare per insegnare ai figli il proprio mestiere in modo che la storia non si arrestasse. A me pare, per tornare al Verga, che un uomo capace di creare un’enorme ricchezza coma la crea infatti Gesualdo Motta sia in grado anche di creare una società a sua immagine: cioè è dotato di una tale volontà di potenza, di una tale capacità organizzativa, da imporre agli altri la propria personalità,da creare un ambiente a sua immagine. Insomma la comunità ne viene condizionata. Si pensi  un poco alla storia del nullatenente John Rockefeller che, conquistata quella ricchezza che tutti sappiamo, diventa simbolo, mito: ossia potere.
Quel miracolo che era  avvenuto in Russia nel secolo scorso con i grandi narratori da noi non si è verificato né col Manzoni,  né col Verga, per citare solo i più grandi. Di nessuno dei nostri scrittori si può dire quello che secondo Gorky Lenin diceva di Tolstoj:” come questo conte ha capito i contadini”! Opere come Le Memorie di un cacciatore di Turgheniev, come i racconti di Cecov e di Gogol, e i romanzi di Tolstoj nei quali la fusione fra narratore e contadino è senza stacchi e sbavature, da noi non sono nate in nessuna epoca. Si pensi al contadino Platone Karatiev che è l’ideale, il sublime di Guerra e Pace.
Il discorso diventerebbe lungo e difficile per spiegare le ragioni per le quali il contadino nella letteratura italiana fino a pochi decenni addietro non trovava posto se non come riempitivo, se non come oggetto di cui ridere per la sua stoltezza e ignoranza o al massimo averne pietà per la sua miseria. Era un po’ uguale a ciò che avviene con i negri in certi film americani.
Col sorgere delle nuove leve di scrittori che hanno origini popolari o anche piccolo – borghesi la presenza del contadino nella narrativa cambia: da oggetto diventa soggetto, personaggio che incomincia a introdursi nella storia e che spesso fa storia. Si pensi a Gente in Aspromonte di Alvaro che esce nel ’29 e è certamente un’opera coraggiosa  per i problemi e drammi che rispecchia e lascia intravedere. Ci sono i romanzi di Seminara che escono negli anni quaranta e poi, dopo la guerra abbiamo le opere di Rea, di Sciascia, di Scotellaro…..sono questi scrittori degli artisti che non stanno sull’altra sponda a guardare e a raccontare con distaccata curiosità, ma spesso indossano il vestito dei loro personaggi.
In un’importante pagina di Letteratura e vita nazionale, Gramsci osserva: -Per il rapporto fra letteratura e politica, occorre tenere presente questo criterio: che il letterato deve avere prospettive necessariamente meno precise e definitive che l’uomo politico, deve essere meno settario, se così si può dire, ma in modo contraddittorio. Per l’uomo politico ogni immagine fissata a priori è reazionaria: il politico immagina l’uomo come è e, nello stesso tempo, come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine; e il suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a muoversi, a uscire dal loro essere presente per diventare capaci collettivamente di raggiungere il fine proposto, cioè a conformarsi al fine. L’artista rappresenta      necessariamente ciò che c’è, in un certo momento, di personale, di non –conformista, realisticamente-.
Ciò che c’è, in un certo momento. E’ il punto focale. Cosa c’era di già fissato, com’era il mondo oggettivo in cui io ragazzo, uno dei tanti, mi venivo formando? Le mie opere sono là per dire ciò che ho colto nella forma definitiva del mondo contadino e artigiano del sud. C’era bisogno di pane da mettere sotto i denti; si andava in cerca di terra da coltivare per piantarvi grano, patate e tutto quanto potesse servire a sfamarci; c’era bisogno di lavorare per guadagnare un poco di soldi per comprare il sale, le medicine.
Sono tutti questi  problemi il terreno da cui spunta il mio ……..
Si pensi a Tibi e Tascia, tanto per fare u n rapido esempio, dov’è raccontato il baratto di un uovo con una sigaretta popolare al tempo in cui l’Italia mussoliniana parlava al mondo.
Forse è opportuno continuare il discorso sui mastri-massari, per far capire meglio l’humus che improntava la mia mente e per rendere più chiaro quant’è cambiato in 50 anni, visto che quelle usanze e quel modo di vivere di cui parlerò non esistono più.
Mio padre era muratore, ossia mastro-massaro.
Mia madre era sarta, ossia maestra massara. Il lavoro di muratore era scarsissimo; quello della sarta in senso moderno quasi non esisteva. Mia madre, lo ricordo bene, era in grado di cucire un abito da sposa; ma ciò che più frequentemente cuciva erano calzoni di fustagno per i contadini, i quali non pagavano mai in danaro ma a scambia servizi, per usare le loro parole. Per un paio di calzoni che mia madre cuciva aveva in cambio una giornata di lavoro con zappa: cioè il contadino veniva a zappare per noi un’intera giornata la vigna o quando si seminava il grano; o al posto di una giornata di zappa mia madre poteva avere due giornate di zappetta:cioè la moglie del giornaliere veniva a scontare la cucitura dei calzoni del marito in due giorni di lavoro a rincalzare il grano e a pulirlo dalle erbacce. Per la cucitura di una gonna a mia madre toccava una giornata di zappetta; per un jippuni (jupon) cioè una blusa invernale toccava anche una giornata di lavoro oppure due fasci legna o di rami . C’erano tante altre piccole cose che sembrano insignificanti ma che al contrario farebbero gola a un antropologo e di cui io non mi sono mai servito nei miei racconti e romanzi: il mio interesse era esprimere l’uomo con tutta la sua carica umana e spirituale, l’uomo che lotta per riscattarsi, l’uomo che non è reso bestia dalla miseria cupa e dalla sofferenza, ma che riesce nonostante l’emarginazione, l’incultura e la repressione a salvarsi. A me interessava l’uomo che pensa in proprio che ha una visione della vita e del mondo tutta sua e posso benissimo testimoniare che nella mia vita ho sentito parlare dei contadini e degli artigiani con una sapienza e un rigore logico allo stato sorgivo degno dei primi filosofi dell’età antica. Da non dimenticare d’altro canto che la terra in cui sono nato è la terra del pitagorismo è la terra di Telesio e di Campanella: e con questo intendo dire che l’antica cultura del pitagorismo assai diffusa ai suoi tempi è diventato l’humus da cui nasce un certo tipo di uomo.
Quand ‘ero ragazzo infatti ho sentito discorrere degli artigiani, dei muratori, analfabeti e in dialetto, con concetti e con massime che più tardi avrei trovati nei testi dei pitagorici pari pari. D’altro canto qualche mio personaggio, come l’evangelista in Mani Vuote, è l’immagine di questa mia testimonianza.
Piccole cose, dicevo, ma di grande importanza per farci capire quanto la cultura del mondo antico sia rimasta viva nella mentalità e nell’atteggiamento dell’uomo del Sud. Basta meditare su un fatto come il seguente: mia madre aveva scoperto che con vecchi stracci poteva farsi una sorta di pantofole che le erano di sollievo quando andava in campagna… Devo aggiungere che mia madre prima di sposare stava in casa, era cioè tenuta da signorina, come si usa dire ancora. Chi lavorava in casa, chi non andava sui campi era chiamata signorina, anche se aveva dieci figli. Ma dopo essersi sposata, mia madre dovette  piegarsi anche lei, per via che a mio padre mancava il lavoro del suo mestiere, al duro lavoro della campagna e anche del mestiere. Cioè se le capitava di andare a giornata ci andava; e questo avveniva quando qualche famiglia aveva molti indumenti da cucire- spesso si trattava di camicie e di mutande tessute al telaio-, o da rinnovare, da riadattare; e per una sua giornata di lavoro a domicilio toccava in cambio una giornata di vaccaro. Cioè il vaccaro veniva per un giorno ad ararci la terra dove seminavamo la nostra partita di grano… ora, per tornare alle pantofole quando i più poveri, e si era tutti sempre più poveri, scoprirono quella sorta di scarpe che mia madre aveva imbastito per sé, vennero a farseli fare anche per loro in modo che potessero camminare più agevolmente e con meno sofferenze per le strade spinose e pietrose della campagna… In diversi miei racconti c’è un bambino che cammina accanto alla madre scalza. E’ l’immagine delle migliaia di contadine che fino a ieri battevano le strade di campagna a piedi nudi. Mi piace aggiungere un particolare che ha un’ importanza antropologica di primo piano che ci fa scendere nei tempi dei tempi… Sottolineo queste cose per mettere in luce come in fondo in fondo lo spirito del mondo contadino non sia stato quasi per niente inteso dalla cultura ufficiale. Ribadisco: quel miracolo che avvenne con i narratori russi da noi non si verificò mai per delle ragioni storiche precise…  Di solito le donne povere venivano sotterrate a piedi nudi. Gli uomini, è un problema degno di esame, per quanto poveri fossero avevano sempre le scarpe. Un uomo scalzo era inconcepibile. Le scarpe facevano parte della dignità maschile; le donne che avevano le scarpe erano proprio rare. Le donne dunque a piedi nudi nascevano, a piedi nudi vivevano e a piedi nudi venivano sepolte. Ma da quando si seppe che mia madre era abile a cucire pantofole con vecchia stoffa, appena moriva una contadina si presentava una qualche comare caritatevole e le diceva: – Per l’anima dei beati morti cucite un paio di sandali per la poveraccia che è morta. Non è giusto che si presenti a piedi nudi davanti al Signore. Già facciamo tanta brutta figura in questo mondo, non è giusto che noi poveri dobbiamo vergognarci anche nell’altro mondo a causa della nostra miseria… Tra l’altro,- proseguiva la comare,- non sappiamo che via ci tocca di dover battere, appena chiudiamo gli occhi. Dipende certo da i nostri peccati. Pare che di là, secondo quanto dicono i morti nei sogni, ci sono strade con spine e chiodi e vetri. Si dice che a piedi nudi è difficile arrivare all’immagine di Dio Nostro Signore-
Mio padre. Anche mio padre quando non gli capitava di lavorare in un’impresa edile- e gli capitava raramente nonostante fosse un bravo muratore a causa della mancanza assoluta di incerte stagioni di lavoro- anche mio padre dunque lavorava a scambi servizi. Per tre sue giornate di manipola- uso il linguaggio di quei tempi e di quell’ambiente- aveva in cambio due sparecchiate- il vaccaro, se si trattava di un vaccaro, doveva lavorare per due giorni con le vacche aggiogate e l’aratro: la parecchiata. Se si trattava invece di un bracciante che magari aveva dovuto aggiustare in fretta il tetto cadente della casa, per tre giorni di manipola doveva fare sei giorni di zappa. Se invece si preferiva il lavoro della moglie, questa doveva fare 12 giorni di zappetta: lavorare a pulire e a rincalzare il grano per dodici giorni. Se poi era in grado di pagare in natura- rarissimamente in danaro- a mio padre per tre giorni di manipola toccavano due quarti di grano,mezzo tomolo, o per essere più chiari circa 22 chili di grano: cioè il pane per 10 giorni per tutta la famiglia. Non era cosa da poco. Oppure poteva avere un cafiso di olio oltre 12 litri:oppure sei chili di formaggio. Potrei continuare su questo tono per parecchio per far capire a chi non è del sud qual era il livello socio economico e culturale fino agli anni ’50, fino all’inizio per intenderci, della grande emigrazione.
Io nascevo e mi formavo in una situazione economica-sociale di questo tipo dove non esistevano i giornali, stimoli a studiare per capire e migliorare il mondo; dove già mandare il figlio alle scuole elementari era un lusso e un sacrificio insieme. In breve, si trattava di una società uguale a quella descritta nel Previtocciolo: ragazzi che di notte si nascondevano dietro le porte e le finestre per sentire come gli sposi facevano all’amore; barzellette e storielle volgari cariche di sensualità repressa. Un inferno senza dannati ma gremito di bestie. Non mi sono mai servito di questi usi e costumi nei miei libri. Li ho eliminati per istinto: non erano materia per un narratore, ma per un sociologo o per un descrittore privo di sensibilità, di drammaticità e di senso storico come don Asprea. A me interessava l’uomo come animale sociale e pensante. I miei personaggi contadini, sebbene analfabeti e incrostati di cultura millenari ormai diventata assurda e disumana, sono degli inquieti. Avvertono che non si può continuare a vivere a quella maniera arretrata, che non si può restare tagliati fuori dalla storia e sanno che per mettersi  alla pari con altri popoli e per liberarsi dal giogo dei baroni c’è una sola via: quella dell’evasione del territorio naturale: l’emigrazione. Questi fermenti sono già nella Teda dov’è rappresentato un mondo di pastori che si adattano a fare i braccianti e donne che compiono lavori massacranti; dove i muratori portano una ventata di idee nuove e dove alla fine tutti hanno coscienza che la guerra finirà nel modo giusto per noi: con la disfatta del nazifascismo; e a guerra finita qualcosa di nuovo dovrà pur sorgere per i lavoratori di tutto il mondo e non solo per quelli del Sud- Inquietudine c’è nei racconti contenuti nel volume Gente in Viaggio. Inquietudine e presa di coscienza infatti aleggiano nel racconto la Selvaggina dove un contadino (parlo in prima persona, giacché mi è parecchio facile raccontare come miei i casi degli altri) sfinito dalla fatica massacrante per aver dissodato un pezzo di terra che non gli darà da vivere, sente che non può continuare in un ambiente in cui l’uomo come fenomeno culturale non esiste. Inquietudine e insofferenza c’è nei giovani de la Regalia (narrato anche questo in prima persona). Tutti i braccianti e gli artigiani devono andare a zappare gratis la vigna del barone per disobbligarsi dei favori che questi fa a loro tutti: dà la partita delle olive, concede un pezzo di terra, o dà protezione presso i carabinieri. Gli anziani accettano passivi quest’usanza feudale; ma i giovani, per la prima volta dopo secoli, dissentano. Hanno coscienza, benché analfabeti e repressi dal fascismo, che senza di loro – è quella coscienza di cui parlerà ad Olten Gianni Palaia – i ricchi non possono essere, così come senza il popolo non ci può essere Dio. Sono disposti e pronti a romperla con la tradizione; e la romperanno infatti perché già mentalmente si preparano a partire; e partono infatti con Gianni  Palaia di Melissa, uno sconfitto della lotta per la conquista del latifondo e che troviamo ad Olten. Gianni Palaia in certo senso è l’uomo nuovo del Sud, l’uomo che ha rotto l’involucro di secoli di storia repressiva feudale e si trova, benché da sconfitto, in un ambiente che gli dà lavoro e gli paga la forza lavoro. Chi conosce veramente il Sud  sa quanto sia importante essere pagati, ricevere una busta paga dopo aver lavorato; chi conosce veramente il Sud sa che laggiù non solo bisognava lavorare una media di dodici ore per otto (anche nelle imprese edili) ma ricorderà certamente che per ricevere i pochi soldi pattuiti (si lavorava fuori di ogni regola sindacale fino agli anni cinquanta) bisognava consumare le scarpe e sberrettarsi e chiedere umilmente al principale o al signorino se stava comodo a dargli quello che gli toccava; e non raramente il principale o il signorino gli dicevano di tornare fra qualche settimana o il mese dopo. Per la classe padronale del mezzogiorno d ‘Italia non era cambiato nulla, non era avvenuto nulla di nuovo nel mondo e continuava a trattare il lavoratore al suo solito: con i piedi. Ma ormai nella mente dell’uomo del Sud, che aveva partecipato a due grandi guerre mondiali, fermentava da tempo il bisogno di rinnovarsi, la voglia di cambiare la sua condizione di disperato ed emarginato.
Per me è stata certamente una grande esperienza essere arrivato qui in Svizzera a cavallo degli anni 60 quando l’afflusso degli emigrati era enorme. Avevo spesso l’impressione di vedere i ragazzi di parecchi miei racconti diventati adulti e arrivati in quel mondo nuovo e ricco di lavoro che avevano sognato e desiderato appassionatamente per anni. Gli ho visti da vicino questi miei personaggi cresciuti, ci sono stato in mezzo a loro e ne ho vissuto il disagio di una nuova emarginazione. Questa conoscenza diretta mi ha permesso di scrivere un libro come Noi Lazzaroni, mentre gli artisti di punta e di sinistra intruppati nella nuova avanguardia facevano giochi di parole, creavano nuove arcadie. Ma non è di me che voglio parlare, vorrei casomai sottolineare che quelle speranze nella Teda di un mondo migliore per tutti i lavoratori della terra vennero deluse. Finita la guerra le masse erano certe che la loro condizione di vita venisse migliorata; non solo non venne migliorata, ma sull’uomo del Sud assetato di lavoro e di giustizia si sparò. Melissa è un punto nuovo e fondamentale nella storia del Mezzogiorno d’ Italia e dell’Europa. Le masse lavoratrici sconfitte ancora una volta, come già era avvenuto nel ’22 , partirono e dilagarono per quasi tutto il mondo e in modo massiccio nel Nord Italia e nel Centro Europa. Vennero sfruttate, usate come mezzo come anime morte (Gogol in Italia è ancora attualissimo, soprattutto durante il periodo dell’elezioni). Ma piano piano qualcosa di molto importante è sorta dalla pelle dei lavoratori prendevano veramente coscienza della loro forza, imparavano a muoversi per il mondo; scoprivano che il loro lavoro veniva remunerato regolarmente con tanto di busta paga e che non gli veniva sottratta neanche un’ora di lavoro. Laggiù i padroni sottraevano intere giornate. Vestivano decentemente; si istruivano. I più aperti sono diventati uomini dell’Europa moderna. Hanno imparato un’altra lingua, leggono dei libri. Sono diventati protagonisti nel vero senso della parola; sanno parlare e pensare meglio di come non riuscisse ai baroni e ormai per via dell’emigrazione sono finiti. Ma se le forze più vive e più giovani si sono rinnovate e fanno parte dell’Europa moderna, nel Sud al contrario, a parte il benessere apparente, è successo qualcosa di veramente preoccupante: la natura si è inaridita, i paesi si sono svuotati e restano spenti per 10 mesi all’anno. Si animano un poco nell’estate quando ritornano per le vacanze gli emigranti. E’ inutile farsi illusioni:fino a quando per ripetere un pensiero di Salvemini, i meridionali non riusciranno a creare una classe dirigente propria, una classe imprenditoriale è inutile prendersela con lo Stato o con i settentrionali ma al posto di una classe dirigente specie negli ultimi anni, al Sud fiorisce la nuova mafia, una mafia che non solo terrorizza le popolazioni ma inaridisce quelle spinte imprenditoriali che incominciavano a dare segno di fiorire; e i torti e le colpe non sono soltanto dei mafiosi ma di quella classe politica che ha permesso che un male così pericoloso come la mafia fiorisse e dilagasse e diventasse il vero protagonista di questo tragico momento storico.
Come si vede i problemi sono una gravità disperante. Gli intellettuali non solo del Sud hanno cercato di mettere il dito sulla piaga; i narratori al contrario sembrano poco interessati a parte qualcuno, come Sciascia, a questi drammi. Alcuni hanno addirittura teorizzato che sul mondo contadino del Sud e sul Sud è stato detto tutto. Nel mio piccolo, ho seguito con ostentazione il mio cammino che è poi il cammino di tutta la classe lavoratrice di cui ho fatto e faccio parte.
Se penso alla Marchesina vedo che ogni mio romanzo si trova già in embrione in uno dei dodici racconti che compongono quel mio primo libro. Il racconto la Marchesina ha una sua continuazione ne La Teda che a sua volta viene sviluppato e concluso da Noi Lazzaroni.
Chi ha letto questi tre libri può benissimo vedere con chiarezza il percorso in meglio che hanno fatto i personaggi della Marchesina (Noi Lazzaroni può benissimo constatare quanto s’è ampliato l’orizzonte del mondo contadino e arcaico di Mastro Filippo della Teda diventato il Mastro Turi di Noi Lazzaroni. Nel racconto Io e Mia madre c’è già in erba “Tibi e Tascia” che viene continuato e in certo senso concluso da Il Nodo e il Codardo. Nel racconto E Dite che i Poveri Soffrono c’è il germe di E’ il nostro turno e anche L’uomo in fondo al pozzo in quel lontano racconto doloroso e drammatico, Bruno, il protagonista, è uno dei primi rari figli di lavoratori che affrontano la vita difficile degli studi; ma Bruno muore di stenti alle porte della laurea. Il protagonista di E’ il nostro turno è un giovane che appartiene alla stessa classe sociale di Bruno ma è di una generazione posteriore. Qualcosa, fra le due generazioni, è cambiata in meglio e tramite l’emigrazione. I fratelli del personaggio sono emigrati in Brasile e altrove e mandano soldi perché il nostro personaggio possa studiare in città. Anche al protagonista del Codardo arrivano soldi dai fratelli emigrati in Germania. Qualcosa dunque è cambiata in meglio per l’operosità dei poveri ed è conseguentemente mutato e migliorato anche il destino generale della gente. Infatti il personaggio di E’ il nostro turno non  solo conclude gli studi, non solo è un professionista di valore, ma è un testimone lucido del suo tempo è un accusatore implacabile del mal costume che sta’ soffocando, anzi distruggendo sul piano morale l’uomo contemporaneo del Sud. Si rifletta un poco sul fenomeno mafia-politica e sui vasti strati sociali che vivono di assistenza e di pensioni.
Qualcuno potrà pensare che io nei miei libri abbia raccontato dei miei casi privati; invece io so di aver raccontato di fenomeni generale che investono tutta la collettività di cui io sono espressione. Si sa che l’artista è l’anima, lo aveva detto con tanta chiarezza Hegel, della collettività che lo esprime; e quelli che sembrano i suoi problemi e i suoi drammi e i suoi dubbi in effetti non sono suoi personali, ma di tutta la comunità. I miei libri sono là a dimostrazione di questa teoria: essi raccontano dell’animo del meridionale del recente passato e presente. Del meridionale attaccato alla sua terra, del meridionale sradicato e sparso per il mondo, del meridionale emarginato di ieri e del meridionale arrivato finalmente ai libri. Cosa sarà in grado di fare il meridionale arrivato ai libri? “Ai posteri l’ardua sentenza” .
Categoria: Società civile  Commenti Disabilitati

Patate! Patate! Patateee!

E’ il grido, l’annuncio giornaliero che si diffonde di primo mattino per le strade del paese.

E’ l’invito che un giorno sì, diciamo, e  un altro pure con l’altoparlante a tutto volume diffonde il patataro, il venditore di patate invogliando la gente alla compera dei suoi tuberi ora evidenziando la qualità della sua merce – pasta gialla, signori!-, ora sottolineandone la provenienza, patate della Sila, signori! Patate silane! E sosta, il patataro, ai crocicchi.

Si fanno sull’uscio le solerti e provvide donne di casa. E si avvicinano al camion, si accalcano, ma non c’è da scegliere, l’automezzo è carico di sacchetti preconfezionati e tutti dello stesso peso. Intanto il patataro con il suo altoparlante continua ad invogliare alla compera dei suoi tuberi: Regalate!, regalate sono le mie patate! Ad una ad una, fatta la spesa, ciascuna delle donne di casa rientra.

Che le patate tipo pasta gialla siano di ottima qualità e che quelle silane siano ancora di qualità superiore a quelle coltivate in altre contrade è risaputo, è tutto pacifico, è tutto ….. normale!

Ma, non è altrettanto pacifico, normale per chi in forza del numero delle primavere che annovera può scrutare a fondo nel secolo passato!

In altra epoca, parafrasando l’aneddoto sui vasi di Samo, se ne poteva coniare un altro del tutto nuovo sulla produzione delle patate a Girifalco:

“Tempo perso portare vasi a Samo (1) così come portare patate a Girifalco!”.

E mangiapatate, con un certo senso di bonario ed amichevole scherno, venivano definiti, chiamati i Girifalcesi! E non a torto!

Girifalco era noto per due P, la lettera dell’alfabeto con la quale hanno inizio due parole, pazzi e patate.

A Girifalco sino all’entrata in vigore della Legge Basaglia, inizi anni ’80 del secolo scorso, vi era una grande struttura manicomiale, l’ex O.P.P. (Ospedale Psichiatrico Provinciale) in cui venivano accolti coloro che manifestavano disturbi mentali e ne provenivano sin dal Dodecanneso (2).

Poi, Girifalco nel passato era un forte produttore di patate. Un’ampia area, l’altopiano di Mangraviti (3) era coltivato esclusivamente a patate.

E la patata fra i prodotti della terra, destinati all’alimentazione nella povera dieta del tempo, deteneva il primo posto. Spesso si iniziava la settimana e la si terminava mangiando patate!

Le si consumavano in “palla”, bollite, sbucciate e mangiate, bollite e condite al piatto, preparate stufate con il sugo del pomodoro, soffritte, arrostite oppure miste a verdura, a fagioli e pasta. Negli ambienti più o meno agiati  ed evoluti nelle diete con le patate venivano preparati purè, gattò, gnocchi, “vrasciole”. E non inorridiscano i giovani che per puro caso andranno a leggerci!

Quando si incominciò a coltivare la patata a Girifalco?

Da una pubblicazione, (4) riferita al XIX Secolo, apprendiamo che “ la patata fu in Calabria portata da don Antonio Cefaly fu Domenico di Cortale. Da detto Cefaly nel medesimo anno ne ebbe pochi e per esprimere la quantità quanto ne entrava in un foglio di carta. Don Vincenzo Paleologo di qui cominciò a coltivarla ed il primo anno ne fece una mezzarola, li gustò e li conservò e a suo tempo li impiantò e cominciò a moltiplicarli e li mantenne fino al 1801: da quell’epoca la detta patata si incominciò a coltivare da pochi, ma lentamente, nel 1806 venuti in questo Regno i francesi ne fecero molto uso di dette patate cosicché si vendevano a sette e otto grani il rotolo (5) ed impararono ai calabresi il modo di servirsene in cucina facendo molte vivande, da quell’epoca in poi la nostra popolazione si applicò alla coltura di dette patate ed ora se ne fanno in quantità, da cui si moltiplicarono e si somministrarono a vari e diversi paesi di questa provincia e da qui da don Gregorio Rocca di Catanzaro, fu mandata la detta patata nella Sila ed ora colà se ne fa gran coltura”.

La patata, dunque, nel campo dell’alimentazione e in quello dell’economia del tempo la faceva da padrona!

La famiglia che poteva contare su “un chiancatu” pieno di patate era considerata benestante, perché aveva di che mangiare!

(1)Samo, isola nel Mare Egeo, nota nell’antichità per le sue terrecotte.

(2)Dodecanneso, gruppo di 12 isole nel Mare Egeo con Rodi capoluogo. Le abbiamo conquistate con la Guerra di Libia (1911-1912) contro la Turchia. Ma in seguito ai rovesci nella Seconda Guerra Mondiale (1939- ’43) e, quindi, con il Trattato di Pace di Parigi sono tornate sotto il dominio della Turchia.

(3)Mangraviti, altopiano ai piedi di Monte Covello.

(4)Ernesta Bruni Zadra, MEMORIE DI UN BORBONICO – Ed.ABS.

(5)Il rotolo, che in Sicilia corrispondeva a grammi 790 in Calabria valeva invece circa 890 grammi.

(6)chiancatu, l’angusto vano del sottotetto.

Categoria: Pagine sparse  Commenti Disabilitati

>DEI LUPINI<

I lupini, sin’ora negletti e ritenuti di poco conto sembrano all’oggi che siano divenuti…, di moda. Il loro improvviso … debutto nella rete commerciale ci ha indotto a delle riflessioni. Addolciti e ammollo li troviamo sulle bancarelle dei mercati rionali, in buste preconfezionate negli scaffali dei supermercati. E, manco a dirlo, alla fermata dei caselli autostradali vengono offerti agli automobilisti di passaggio!

Scoperta o riscoperta dei lupini?, né l’una né l’altra, semmai una loro rivalutazione!

Dei lupini l’uomo ha avuto conoscenza sin da epoche remote. Per noi è sufficiente riportare una reminiscenza scolastica riferita alla mitologia greca:

“Menippo,  filosofo cinico, non ha con che pagare il nolo al traghettatore infernale, Caronte, se non con le bucce di lupini che gli sono rimaste nella saccoccia!” (1)

Ma, è innegabile quanto nel tempo passato ed ancora oggi siano stati e siano utili i lupini in particolar modo nelle realtà agricole e contadine!

Perché ricchi di azoto, con l’operazione del sovescio si trasformano nel maggese in  ottimo concime naturale. Ed ancora. Addolciti e, quindi, essiccati e moliti costituiscono sostanzioso pasto per gli animali domestici destinati all’ingrasso.

Anche se nel passato non venivano accolti nel novero degli alimenti, dei lupini si faceva consumo per “sfizio”, sporadicamente ed occasionalmente.

Piace ricordare le tombolate natalizie dei nostri verdi anni quando ciascuno dei giocatori con le bucce di lupini annullava sulla propria cartella i numeri che il tomboliere andava estraendo.

Una volta le bettole, le mescite di vino specialmente nei piccoli centri erano gli unici luoghi ove potersi ritrovare, incontrare.

Ne ricordiamo una, la bettola di Giosuè Giampà. Era ubicata al penultimo o terzultimo degli attuali numeri civici del tratto iniziale di Corso Garibaldi che si immette in Piazza Umberto I°.

Sull’uscio del pubblico esercizio sedeva  Angelarosa la luppinara. (2)

Era una vecchietta minuta minuta, dal viso aggraziato coronato dal candore dei suoi capelli ed accanto posato a terra un cesto colmo di lupini, addolciti e di recente ammollo.

Gli avventori nel varcare la soglia, prima di avvicinarsi al banco della mescita, sostavano  da Angelarosa .

E Angelarosa per un soldino, dei suoi lupini, ne dava una misura colma colma.

In tempi difficili e di ristrettezze economiche come durante la Seconda Guerra Mondiale (1940-1943) fu tentata la panificazione con la farina di lupini, ma ebbe esito negativo non si andò oltre perché ciò che si otteneva ben presto diveniva non commestibile.

A quanto ci è dato di sapere nel passato la coltivazione dei lupini era più o meno praticata nelle zone di “pendina”, pedemontane o zone basse e pianeggianti del territorio, vedi Lustrella e Rivaschiera. (3)

Nelle predette località sono rimasti i ruderi di strutture in muratura che ricordano grandi fornaci che sorreggevano capienti conche o caldaie nelle quali avveniva la bollitura dei lupini. L’operazione di addolcimento dei lupini iniziava con la loro bollitura e indi ne seguiva l ‘ammollo nell’acqua più o meno corrente.

Le strutture venivano date in nolo ai produttori interessati in ragione di una mezzarola per ogni dieci tomoli di lupini che venivano addolciti. (4)

La sopravvenuta commercializzazione dei lupini costituirà un imput a che anche a Girifalco ne venga incrementata la coltivazione?

I presupposti ci sono: all’utilizzo che di essi veniva fatto, limitato al sovescio e all’ingrasso di alcuni animali domestici, adesso è da aggiungere il consumo che oggigiorno ci viene proposto.

Beninteso che non poniamo la ripresa della nostra agricoltura nella produzione dei lupini!

Sì!, una rondine non fa primavera!

Però, uno stormo di rondini è formato da una rondine + una rondine + una rondine … e così via!

(1) Luciano,  Dialoghi dei morti

(2) Angela Iapello Mellace, Profumo Antico ovvero La mia poesia

(3) Lustrella e Rivaschiera, contrade in territorio di Girifalco.

(4)  Mezzarola e tomolo, misure locali per aridi

Categoria: Pagine sparse  Commenti Disabilitati

Vicianzu lu guardianu

Sparava con  ….. semi di cavolo fiorito!

Vicianzu era “guardianu”,uomo di fiducia di una facoltosa famiglia del luogo. Con l’immancabile fucile, che portava a tracolla, andava su e giù per i sentieri, i viottoli  che attraversavano in lungo e in largo  le “terre” dei suoi padroni. Erano, sì, grandi estensioni, ma incolte aggredite dai rovi, dalle felci e dalle “brughiere”.

Ci si meraviglia, oggi, che su fondi rustici di tale natura venisse esercitata una certa vigilanza da apposito personale. La nostra, al tempo, era una società contadina e, quindi,  si metteva a profitto tutto ciò che la terra offriva ed offre anche spontaneamente: le felci venivano usate per  lettiera degli animali domestici e, se sotterrate, nel maggese, costituivano un ottimo concime naturale; le brughiere facevano parte della provvista di legnatico per l’inverno. E, quindi, i guardiani vigilavano perché nessuno, senza la loro autorizzazione o previo accordo, osasse penetrare furtivamente in tali fondi rustici. A proposito dei “guardiani” il poeta F.S. Riccio ci ha lasciato una bella poesia:

LU GUARDIANU

<<Cu è ntra lu mela licca>>

No ‘appa fortuna mu sapa ncun’arta,

Mu nescia cchiù riccu ntra ncuna famigghia;

E quando si vitta senz’arta e no parta

Pensava de notta chi pisci mu pigghia

Mu scampa la vita……si dezza de manu

Mu fa ncuna cosa….si ficia guardianu…

Paria nu giganta, e russu de faccia

S’armau de pugnali, s’armau de scupetta,

E cuamu satava nu cana de caccia,

Satava timpuni satava ruvetta

Mu guarda la terra, mu guarda li frutti

Chi Dio licrjiava mu campanu tutti….

Lu poveru ndappu non era malignu,

Guardava la genta mu vida chi fannu,

E quandu trovava tagghiatu nu lignu

Pensava e cercava cu ficia lu dannu,

Facia nu jiudizzu, ma pua cittu cittu

Pensandu pensandu….passava derittu

E senza mu tessa e senza mu fila,

Iocandu la carta de l’uamu chi sa

Na botta a la mazza, na botta a la tila….

Tirava la vita….sapia duva và…

Facia lu guardianu mu guarda la luna,

Mu dassa  cuntianti cu pigghia e cu duna…

Guardava lu mela…guardava lu latta…

E cuamu succeda guardandu guardandu,

Non’era nu cana non’era na gatta,

Però lu guardianu liccava…e liccandu

Jiettava la scupetta…jiettau li pungnali…

Jiettau li cartucci…jiettau li stivali…

Ma Vicianzu non era un “guardianu” prepotente, arrogante anche se non era nemmeno un  Robin Hood.

“Vicianzu u guardianu”  sapeva coniugare la fedeltà verso i suoi padroni con l’umanità verso coloro che avessero bisogno. Non fu mai detto che qualcuno avesse avuto motivo di lamentarsi per aver subito vessazioni.

Lo si ricorda ancora con molta simpatia in particolar modo per le  … sue presunte avventure di cacciatore. Vicianzu narrava le sue … avventure in modo così suadente e con dovizia di particolari da causare sconcerto nell’uditorio, in dubbio se si trattasse di presunte …. avventure o di fatti di vita vissuta.

Fra le tante ne abbiamo scelta una che ci è sembrata molto simpatica.

“”Fa un caldo soffocante, la canicola imperversa. Ho camminato molto, andando su e giù per i campi. Stanco morto cerco refrigerio e riposo sotto una siepe ricca di lussureggiante vegetazione.

Dirimpetto un pezzo di terra coltivato a fagioli. Non tira alito di vento, tutto intorno è fermo. Il monotono canto delle cicale infonde un certo torpore. Anche se stanchi gli occhi spaziano intorno e all’improvviso scopro due “cosi”, mi sembrano due piume che emergono al di sopra delle piantine di fagioli, guardo con insistenza, aguzzo la vista e cosa vedo in quelle presunte piume?, le orecchie di una bestiola che con strana sicurezza per me non sarebbe stata altra bestia se non una lepre! Mi dò subito da fare nel massimo silenzio per non attirare l’attenzione della bestia e farla scappare. Prendo dalla tasca una cartuccia vi immetto una dose di polvere e … i pallini di piombo?, avevo lasciato a casa il sacchetto dei piombini! Giro gli occhi intorno a me e guardare, osservare, decidere, operare è tutto uno in un baleno! Nei pressi vi è una pianta di cavolo in avanzata fioritura, spicato e ne afferro un ciuffo. Cosa faccio?, lo sfrego fra le mani e ne ottengo piccoli semi che in quanto a colore e grossezza non hanno nulla da invidiare ai pallini di piombo e che aggiungo nella cartuccia. Carico il fucile, prendo la mira, mollo il grilletto e  …. PUM!, parte un colpo!No!, dalla canna del fucile fuoriesce solamente una vampata!

Con quei strani pallini quale sarebbe potuto essere il risultato? La bestiola si mette in salvo, sparisce alla mia vista. Delusione e rammarico vi si alternano!

Ma il caso vuole che l’anno seguente mi ritrovi là, nel medesimo luogo. Le cose si ripetono come fosse un copione, la piantagione di fagioli, la lepre che sgranocchia i baccelli. Questa volta, però, sono preparato di tutto punto, la cartuccia, già nella canna del fucile preparata con polvere e pallini di piombo. Avvisto la bestiola, prendo la mira, libero il grilletto e PUM!,parte un colpo con tutte le regole. Una pioggia di pallini di piombo investe la bestia che dopo aver fatto un salto in alto stramazza al suolo fredda, morta. Corro, la raccolgo, la sistemo nello zaino e soddisfatto prendo la via del rientro. La carne per la festa è fatta! La festa di San rocco è prossima. L’appendo all’anta della porta, le sfilo la pelle, la squarto, le apro la pancia e … rimango senza parole!  Le viscere si presentano avviluppate da ramificazioni di semi di cavolo in fioritura! E, sì, è la lepre a cui l’anno precedente avevo sparato con una cartuccia caricata con semi di cavolo fiorito, spicato!””

Sono da immaginare gli ohibò! di meraviglia e, insieme, di incredulità degli astanti i quali riavutisi scoppiano in sonore risate.

Categoria: Novellistica (a confronto)  Commenti Disabilitati