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Un malinteso a tavola

A Pauluzzo non andava proprio il piatto che gli era stato servito.

La mamma accortasi del disgusto che il figlio provava per il pranzo che gli aveva preparato in modo chiaro gli disse:

- Pauluzzo!, se ti va bene questo, va bene!, altrimenti … posa!

In quel paese con il termine posa indicavano, pure i fagioli. A Pauluzzo quei legumi piacevano molto e pregustandone un bel piatto scostò da sé la pietanza che gli era stata servita dalla mamma rimanendo in attesa del presunto piatto di posa cioè di fagioli!

La mamma accortasi del malinteso in cui era incorso Pauluzzo, quasi, gli urlo’:

-Pauluzzo!, non capisci l’italiano?, che tipo di studente avanzai? Ti dissi … posa, voce del verbo posare e, quindi, posa, deponi la forchetta!

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Usi, Superstizioni e Devozione

Nel secolo scorso sino alla celebrazione del Concilio Ecumenico Secondo, “il Gloria”, l’Annuncio della Risurrezione
di N.S.G. , veniva suonato con un giorno di anticipo, Sabato Santo anziché Domenica di Pasqua.

E mattina di sabato venivano benedetti l’acqua e il fuoco. La benedizione dell’acqua avveniva nella Chiesa Matrice. In fondo alla navata di detta chiesa veniva posta una grande caldaia piena di acqua. Intorno alla caldaia facevano ressa  sia ragazzi, sia ragazze. Tutti erano muniti di contenitori di varia foggia: bicchieri di alluminio e di vetro, pentolini, cuccumelle, boccali e piccole brocche di terracotta. L’arciprete del tempo, Don Ciccio Palaia, a un certo punto della funzione religiosa si portava in fondo alla navata e leggendo le rituali preghiere faceva scendere nella caldaia un grosso e lungo cero.

Terminate le preghiere il cero veniva tolto dall’acqua, segnale che la benedizione era avvenuta. Allora di botto, un allungare di braccia per affondare nell’acqua i vari contenitori.

L’urto era normale che avvenisse e ne riportavano la peggio quelli di consistenza fragile. La benedizione del fuoco avveniva sul sagrato antistante le due chiese, la Matrice e il Rosario.

Il sagrestano, ricordiamo Michele Chiera, accendeva un bel fuoco e intorno ad esso, per ovvi motivi, non si faceva ressa, nè ci si accalcava così come alla benedizione dell’acqua.

Ma, non erano pochi quelli che si avvicinavano e si adoperavano perché, di quel Sacro Fuoco,  potessero prenderne…. un pizzico.

A casa quel pizzico di brace veniva ravvivato con l’aggiunta di qualche granello d’incenso. E la padrona di casa, improvvisatasi ministra di culto, come se avesse un Turibolo benedicente si portava in tutti gli ambienti della sua abitazione. Non mancava di recitare Ave Maria e Pater Noster intercalandoli con implorazione che da casa sua fossero tenuti lontano malocchio, maledicenze e invidia!

Terminata la benedizione, sempre, la padrona di casa aveva cura di buttare il tutto, ancora fumante, al più vicino incrocio di strade.
Arrivati  i festosi rintocchi delle campane di tutte le chiese, il genitore sollevava in alto il proprio figlio in segno augurale:

-randa!, randa, mu ti viju, figghiumma!,

(che io ti possa vedere grande grande figlio/a mio/a!).

Ed, ancora, al suono della campane con un bastone si batteva sul pavimento e sulle suppellettili, lanciando una intimazione:

-surici de la casa mia jativinda!

(Topi della mia casa andatevene)

 

Mattina di Sabato era praticata una usanza, “la gara a prendere la testa”  che era indicativa delle tristi condizioni dell’epoca.

Sin dalle prime ore del mattino all’esterno delle macellerie faceva bella mostra di sè un capo di bestiame ovino ben legato e disteso su uno scannatoio, un’apparecchiatura di legno sulla quale, di solito, venivano macellati gli animali di taglia minuta.

Con l’approssimarsi dell’ora del “Gloria” dinnanzi alle macellerie andavano formandosi capannelli di curiosi e di interessati alla singolare gara.
Fattasi l’ora del “Gloria” il macellaio al primo rintocco sferrava con la mannaia un fendente deciso e bene assestato, decapitava la bestia e  senza alcun ritegno ed accorgimento lanciava contro gli astanti quella testa  grondante di sangue. Ne nasceva un gareggiare così animato che sembrava una zuffa, ma alla fine uno riusciva ad entrarne in possesso e alzandola in alto come un trofeo, lesto spariva. Gli altri delusi, scornati, rammaricati, lordi di sangue rimanevano sul posto a fare inutili commenti.

 

Sabato Santo chiudeva il periodo di penitenza, di astinenza e digiuno che aveva avuto inizio Mercoledì delle Ceneri.

 

 

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L’AZATA

(Da un “pastone redazionale” apparso sul numero 4 del 1999 di Pagine Bianche)

Da tre secoli, nel pomeriggio di Martedì grasso, a Girifalco si porta in processione la statua di San Rocco, il suo protettore.

Questa commistione del sacro col profano è sempre stata motivo di perplessità ed ha sollevato dubbi e interrogativi circa le ragioni che sono all’origine della particolarissima cerimonia.

La giornata di martedì, che chiude il periodo di Carnevale ed apre le porte a quello di quaresima, è, infatti, una giornata “godereccia” che certo non si adatta alla riflessione e al raccoglimento nella preghiera.

Col tempo si è persa la memoria e la consapevolezza del motivo di questa processione, che, per la devozione con la quale viene celebrata e la grande partecipazione popolare, ha sempre costituito uno dei segnali della profonda religiosità dei girifalcesi.

Nel tempo sono state azzardate molte interpretazioni, ma tutte appaiono frutto di virtuosismi intellettuali. Qualcuno la volle in qualche modo legata al Carnevale (ad un periodo di spensieratezza ne segue un altro di
riflessione e di penitenza) e si credette anche di intravedere un parallelismo etimologico fra l’Azata (1) (alzare le carni) e Carnevale (carnem levare).

Ma un documento del XVII secolo, giacente nell’Archivio Diocesano di Squillace e riportato alla luce dal compianto Turuzzo Sinatora e a noi consegnato in fotocopia, fa giustizia di tutte le interpretazioni finora avanzate sull’Azata.
Dalla Bolla si evince che in origine l’Azata fu istituita come festa di ringraziamento a San Rocco per avere liberato Girifalco dalla peste: secondo la credenza popolare, infatti, San Rocco, nella potenza della sua intercessione, si alzò sull’umanità sofferente e allontanò da essa il letale morbo che in quel periodo (siamo nel 1600) aggrediva uomini, animali e cose.

Nella supplichevole richiesta del popolo di Girifalco, trascritta nella Bolla, si legge tra l’altro:<Nell’anno della natività del Signore 1657, il 25 del mese di marzo… il Sindico,Università et huomini della Terra di Girifalco umilissimamente espongono a V.S.R. ma come havendo edificato una chiesa vicino le mura di detta terra sotto titulo di S.to Rocco per la grazia ricevuta da
N.S. di essere stati liberati dalla peste che gli ha sin qui con molta mortalità fieramente vessato, desiderano erigere detta chiesa in Confraternita di Laici… de sacchi e con le infrascritte prerogative et privileggi, la supplicano però a degnarsi di erigere canonicamente della Confraternita e di concederli oltre le solite … anche le infrascritte grazie che lo riceveranno
per affetto segnalato dalla sua benignità. Ud dues…>

I “privilegi” allora concessi furono quelli di erigere la Confraternita di laici, di celebrare le Quarantore del Santissimo Sacramento, di esporre la Reliquia di San Rocco e di portare la sua statua in processione sia nel giorno della sua festa, sia per altre gravi necessità: funzioni religiose che sono state tramandate fino ai giorni nostri, costituendo un esatto riscontro degli avvenimenti di quel lontano marzo di più di trecento anni fa.

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(1)  G.Rohlfs Nuovo
Dizionario Dialettale della Calabria

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