Usi, Superstizioni e Devozione

Nel secolo scorso sino alla celebrazione del Concilio Ecumenico Secondo, “il Gloria”, l’Annuncio della Risurrezione
di N.S.G. , veniva suonato con un giorno di anticipo, Sabato Santo anziché Domenica di Pasqua.

E mattina di sabato venivano benedetti l’acqua e il fuoco. La benedizione dell’acqua avveniva nella Chiesa Matrice. In fondo alla navata di detta chiesa veniva posta una grande caldaia piena di acqua. Intorno alla caldaia facevano ressa  sia ragazzi, sia ragazze. Tutti erano muniti di contenitori di varia foggia: bicchieri di alluminio e di vetro, pentolini, cuccumelle, boccali e piccole brocche di terracotta. L’arciprete del tempo, Don Ciccio Palaia, a un certo punto della funzione religiosa si portava in fondo alla navata e leggendo le rituali preghiere faceva scendere nella caldaia un grosso e lungo cero.

Terminate le preghiere il cero veniva tolto dall’acqua, segnale che la benedizione era avvenuta. Allora di botto, un allungare di braccia per affondare nell’acqua i vari contenitori.

L’urto era normale che avvenisse e ne riportavano la peggio quelli di consistenza fragile. La benedizione del fuoco avveniva sul sagrato antistante le due chiese, la Matrice e il Rosario.

Il sagrestano, ricordiamo Michele Chiera, accendeva un bel fuoco e intorno ad esso, per ovvi motivi, non si faceva ressa, nè ci si accalcava così come alla benedizione dell’acqua.

Ma, non erano pochi quelli che si avvicinavano e si adoperavano perché, di quel Sacro Fuoco,  potessero prenderne…. un pizzico.

A casa quel pizzico di brace veniva ravvivato con l’aggiunta di qualche granello d’incenso. E la padrona di casa, improvvisatasi ministra di culto, come se avesse un Turibolo benedicente si portava in tutti gli ambienti della sua abitazione. Non mancava di recitare Ave Maria e Pater Noster intercalandoli con implorazione che da casa sua fossero tenuti lontano malocchio, maledicenze e invidia!

Terminata la benedizione, sempre, la padrona di casa aveva cura di buttare il tutto, ancora fumante, al più vicino incrocio di strade.
Arrivati  i festosi rintocchi delle campane di tutte le chiese, il genitore sollevava in alto il proprio figlio in segno augurale:

-randa!, randa, mu ti viju, figghiumma!,

(che io ti possa vedere grande grande figlio/a mio/a!).

Ed, ancora, al suono della campane con un bastone si batteva sul pavimento e sulle suppellettili, lanciando una intimazione:

-surici de la casa mia jativinda!

(Topi della mia casa andatevene)

 

Mattina di Sabato era praticata una usanza, “la gara a prendere la testa”  che era indicativa delle tristi condizioni dell’epoca.

Sin dalle prime ore del mattino all’esterno delle macellerie faceva bella mostra di sè un capo di bestiame ovino ben legato e disteso su uno scannatoio, un’apparecchiatura di legno sulla quale, di solito, venivano macellati gli animali di taglia minuta.

Con l’approssimarsi dell’ora del “Gloria” dinnanzi alle macellerie andavano formandosi capannelli di curiosi e di interessati alla singolare gara.
Fattasi l’ora del “Gloria” il macellaio al primo rintocco sferrava con la mannaia un fendente deciso e bene assestato, decapitava la bestia e  senza alcun ritegno ed accorgimento lanciava contro gli astanti quella testa  grondante di sangue. Ne nasceva un gareggiare così animato che sembrava una zuffa, ma alla fine uno riusciva ad entrarne in possesso e alzandola in alto come un trofeo, lesto spariva. Gli altri delusi, scornati, rammaricati, lordi di sangue rimanevano sul posto a fare inutili commenti.

 

Sabato Santo chiudeva il periodo di penitenza, di astinenza e digiuno che aveva avuto inizio Mercoledì delle Ceneri.

 

 

Categorie: Echi del passato
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