Due fiabe a confronto:

I tre orfani (di Italo Calvino) e I tre fratelli(favola calabrese) 

Sfogliando un’enciclopedia scolastica (1) ci è capitato di leggere una fiaba di di Italo Calvino, I tre orfani (2). Sin dalle prime battute la lettura ha destato in noi un particolare interesse in quanto man mano che andavamo avanti tornava alla nostra memoria una fiaba che ci raccontavano le nostre nonne , “I tre fratelli” . Le due narrazioni, anche se diverse per sviluppo di trama, presentano nell’impianto delle analogie. E non poteva essere diversamente, facendo parte, sia l’una sia l’altra del patrimonio culturale della nostra regione. Calvino, infatti, ha desunto la sua fiaba dalla tradizione novellistica di un paese della Calabria, Tiriolo, e l’ha definita ” un’allegoria religiosa di rara bellezza”. Perchè i lettori possano fare una lettura comparativa delle due fiabe, le proponiamo entrambe, l’una in una nostra riduzione, l’altra riportata così come è tornata alla nostra memoria.    
I tre orfani ( I. Calvino)
Un uomo morì e lasciò tre orfani. Il maggiore un giorno disse: Fratelli, parto. Vado a fare fortuna.

Arrivato nella vicina città, come se fosse un bandiere comunale, andava per le strade e gridava:

Chi mi vuole per garzone

Chè lo voglio per padrone!

S’affacciò un gran signore:

” Se ci mettiamo d’accordo

ti prendo per garzone.”

” Sì, datemi quel che volete.”

” Ma io voglio ubbidienza”.

” E io, vi ubbidisco in tutto.”

Il signore la mattina seguente chiamò il giovane e consegnandogli una lettera gli disse: ” Lascia fare al cavallo, sa esso a chi deve essere consegnata. Ti raccomando, però, di non toccare mai le redini, altrimenti il cavallo torna indietro”.

Galoppa galoppa e arrivò sul ciglio di un burrone. Il giovane spaventato e dimentico delle raccomandazioni ricevute, temendo di andare giù, istintivamente tirò le redini e il cavallo tornò al palazzo. Vedendolo tornare il padrone gli disse:

” Non mi hai ubbidito. Non sei andato dove ti avevo mandato. Sei licenziato, ma vai a quiel mucchio di denari e prendine quanti ne vuoi e vattene!”.

Il giovane si riempì le tasche e andò via dal palazzo. Però, appena fu fuori andò diritto all’Inferno.

Il più grande dei fratelli che erano rimasti a casa, vedendo che il fratello maggiore non tornava, decise di partire e fece la stessa strada. Giunto in città prese anche lui a gridare:

” Chi mi vuole per garzone

chè lo voglio per padrone!”.

 S’affacciò lo stesso signore e lo chiamò. Si misero d’accordo e la mattina gli diede le stesse istruzioni che aveva dato al fratello e lo mandò con la lettera. Però, anche lui arrivato sul ciglio del burrone, spaventato, tirò le redini e il cavallo tornò indietro. Arrivato al palazzo il padrone gli disse:

” Prendi quanti danari vuoi e vattene!”.

Il giovane, così come in precedenza aveva fatto il fratello, si riempì le tasche e partì. Ma appena fu fuori andò anche lui diritto all’Inferno.

Il fratello minore, vedendo che nessuno dei due fratelli faceva ritorno, decise anche lui di partire. Fece la stessa strada e, arrivato nella stessa città, si diede a gridare per le strade:

” Chi mi vuole per garzone

chè lo voglio per padrone!”.

S’affacciò il solito signore, che lo fece salire e gli disse:

” Io ti do danari, da mangiare e quel che vuoi, ma a patto che ubbidisca!”.

Il giovane accettò e la mattina, ricevute dal padrone lettera e istruzioni, partì. Arrivato al solito ciglio di burrone, guardò giù e gli venne la pelle d’oca, ma pensò:

” Alla speranza di Dio!”, spronò il cavallo e chiuse gli occhi. Quando li riaprì era dall’altra parte.

Galoppa galoppa, giunse ad un fiume largo come il mare. Temette di annegare, ma, affidatosi alla volontà di Dio, con il cavallo si spinse in avanti, chiuse gli occhi e fu dall’altra parte del fiume.

Galoppa galoppa, arrivò ad un bosco così fitto che non vi passava nemmeno un uccellino.

” Qui mi perdo!” – pensò il giovane – ” Del resto se mi perdo io si perde anche il cavallo, alla speranza di Dio!”, e spinse il cavallo in avanti.

Inoltratosi nel bosco, s’imbattè in un vecchietto intento a tagliare un albero con un filo d’avena.

” Ma cosa fai?”, gli chiese il giovane.

 “Dì ancora una parola e ti taglio la testa con questo filo d’avena”, gli rispose il vecchietto.

Il giovane riprese il cammino e, galoppa galoppa, vide un arco di fuoco con ai lati due leoni.

” Se provo a passare lì in mezzo, di sicuro mi brucio…Avanti, alla speranza di Dio!”, esclamò il giovane.

Galoppa galoppa, scorse una donna sopra una pietra che pregava. Il cavallo s’arrestò e il giovane capì che quella donna era la destinataria della lettera. Infatti, la donna aprì la lettera, lesse, poi prese un pugno di sabbia e lo gettò per aria. Il giovane, portata a termine la missione, montò a cavallo e ritornò al palazzo. Il padrone, che era il Signore, gli disse:

” Il burrone devi sapere che è la cascata dell’Inferno, l’acqua le lacrime della Madre mia, il sangue è il sangue delle mie cinque piaghe, il bosco è le spine della mia corona, l’uomo che tagliava l’albero con il filo d’avena è la Morte, l’arco di fuoco è l’inferno, i due leoni i tuoi fratelli e la Donna inginocchiata è la Madre mia. Tu mi hai ubbidito, prendi dal mucchio d’oro quanti danari vuoi!”.

Il giovane si licenziò dal Signore prendendo un solo marengo, ma quando andava a fare la spesa, spendeva, sì, ma il marengo era sempre nella sua tasca.

 

***

I tre fratelli

Morto il padre, tre fratelli, venuta meno l’unica fonte di sostentamento economico della famiglia, anche se ancora giovanissimi, incominciarono a darsi da fare. Parte per primo in cerca di fortuna il fratello maggiore e con la zappa sulle spalle si reca nel vicino paese, ove si diceva che vi fosse forte richiesta di lavoratori per dissodare la terra. Giuntovi, si dà a percorrere le strade cittadine e si offre gridando:

 

” Cu vo’ patruna, ca iu vuagghiu garzuna!”.

Lo sentì un mercante di tessuti, che, incuriosito di quanto andava gridando il giovane forestiero, da buontempone qual era lo chiama e gli propone:

” Sianti!, si ttu mi cunti na gara’hula senza mu dici ” Ncera na vota “ iu mi pigghiu a zzappa e tu a mercanteria”.

Il giovane , inesperto e, per le circostanze in cui era venuto a trovarsi dopo la scomparsa del padre, disposto a credere a quella proposta così promettente, s’impapina, si confonde e incomincia:

- ” Ncera na vota…”:

- ” Basta, basta! Perdisti, dammi a zzappa e vavattinda!”, l’interruppe il negoziante.

Sconsolato, avvilito, rammaricato, deluso perchè gli era sfuggita per un nonnulla la fortuna, il giovane tornò a casa.

Volle forzare la fortuna il secondo dei fratelli e partì. Arrivato nel vicino paese, così come aveva fatto il fratello maggiore, con la falce in pugno – era tempo di mietirura – si portò per le strade del paese gridando:

” Cu vo’ patruna ca iu vuagghiu garzuna!”.

Lo sentì lo stesso negoziante, lo chiamò e con tono ingannevole, facendogli le vista di volerlo aiutare, gli disse:

- ” Sianti, biaddhu miu! Mi ncriscivi de sta vita e vuagghiu cambiara statu! Cambiu lu negoziu cu ‘hocigghiu si ttu mi sai cuntara na gara’hula senza mu dici ” Ncera na vota…”.

- ” Oh!, pe chissu!…vi nda cuntu ciantu!”    , esclamò il giovane, fregandosi nel contempo le mani e pregustando il cambiamento di stato che da lì a poco avrebbe conseguito.

L’ebbrezza della gioia gli fece dimenticare i patti che avrebbe dovuto rispettare e cadde nell’errore in cui era caduto il fratello:

” Ncera na vota…”

Il negoziante, per nulla spazientito, anzi divertito, interruppe il giovane e gli fece deporre la falce dietro la porta del negozio, là dove il fratello maggiore, avendo subìto la stessa sorte, era stato costretto a deporre la zappa.

Mogio mogio e imprecando contro l’avversa fortuna fece ritorno a casa e raccontò ai fratelli quanto anche a lui era capitato.

Il fratello minore non si diede per vinto e decise di partire sperando di essere più fortunato dei fratelli. Giuntovi nel paese vicino e con tante cavezze a tracolla sulle spalle – gli piaceva fare l’allevatore – percorse le strade del paese gridando così come in precedenza avevano fatto gli sfortunati suoi fratelli:

” Cu vo’ patruna, ca iu vuagghiu garzuna!”

Lo sentì il solito negoziante che lo chiamò e gli fece la stessa proposta che aveva fatto ai suoi fratelli.

Il giovane accettò e incominciò:

” Quandu mammata ‘hicia a ttia, nda ‘hicia tri cuamu tia, unu ballava, unu cantava e natru dicìa: Niasci mercanta ca la mercanteria è la mia!”

Il negoziante rimase senza parole e obtorto collo dovette rispettare i patti.

A margine delle due fiabe sono d’obbligo alcune considerazioni. Così come oggi la televisione , un tempo il novellare delle persone anziane, mentre la famiglia era riunita al focolare, o, nella migliore delle ipotesi, attorno al braciere, rispondeva ad un duplice scopo, passare le lunghe serate invernali e dare indirettamente alle giovani generazioni sia degli insegnamenti sia degli ammaestramenti.

Nella fiaba di Calvino, I tre orfani, echeggia il passo del Vangelo là dove viene ticordato l’episodio della tempesta sedata (3), allorchè Gesù apostrofò aspramente gli apostoli che, nonostante sulla barca fosse presente Lui stesso, dinnanzi allo scatenarsi della tempesta si lasciarono prendere dal panico: ” Perchè siete paurosi? Non avete ancora fede?”

Nella ” I tre fratelli “ è evidente il carattere didascalico-ammaestrativo e viene premiata la prontezza dell’ingegno, il sapersi districare nella vita.

( da “PagineBianche” Anno Xi  – Numero 1)

 

Note:

(1 ) ” le cento città “, vol. III lett. C, Ist. Ital. Edizioni ATLAS – Bergamo;

( 2 ) da ” Fiabe Italiane” – Edizioni Einaudi;

( 3 ) Marco 4-35.

 

 

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